La Sala Assoli di Napoli ospita lo spettacolo vincitore del Premio Vitiello 2023
Il tema generazionale del rapporto tra padri e figli abbraccia atavicamente – con le sue declinazioni molteplici e con le più o meno complesse implicazioni che può avere nella vita di ciascuno – il vissuto trasversale di ognuno di noi, travalicando epoche e situazioni, e dando luogo tra l’altro a una vasta trattatistica sull’argomento, oltre ad aver fornito anche fertile traccia letteraria (pensiamo a Turgeneev, giusto per fare un esempio), ma non solo.
Il rapporto padri-figli, raccontato, indagato, descritto nelle più svariate forme e dalle più disparate angolazioni, ben si può prestare anche ad essere inscenato e a prendere fattezze che parlino la lingua del teatro. È questo che avviene sull’impiantito della Sala Assoli di Napoli: “Era mio padre”, di Mauro Maurizio Palumbo, giovane autore la cui ricerca artistica compendia performing art e arti visuali, costruisce una drammaturgia performativa che, in modo simbolico, allusivo e poetico, prova a ripercorrere un vissuto (il proprio, ma in senso estensivo i sintagmi potrebbero essere, se non universali, quantomeno comuni e diffusi), che racconti le fasi cruciali di una vita e del panorama relazionale che la costella, ponendo l’accento in particolare sulla figura paterna e sui lasciti di un distacco improvviso, coi rimpianti di ciò che non ci si è detto e non si potrà più dire.
Così, un corpo d’attore vive in scena (una scena nuda, i cui unici arredi saranno drappi fruscianti prima, una tinozza con dell’acqua poi, delle fotografie infine) una sorta di riproduzione di un intero ciclo vitale, partendo dalla nascita, passando dal buio alla luce, dall’urlo che consegna un’anima alla vita, ai segnali – sonori, fisici, visuali e mai verbali – che ne scandiscono il perturbante percorso delle sensazioni, delle emozioni, delle conflittualità, delle gioie e degli strazi.
È danza di corpo e corpi: quello dell’attore/performer a cui sono ancillari corpi in aggiunta, che dal fondo, di volta in volta, in una graduale progressione di quadri visuali, incarnano figure accessorie, simboli ed essenze più che “personaggi” tout court, che si susseguono lungo il tragitto scenico ed esistenziale, simboleggiando ruoli e relazioni nel loro evolversi dinamico, per poi ritornare nell’ombra e lasciare il solo protagonista in centro di palco. Sicché osserviamo un corpo d’uomo dapprima “nascere” – in una sorta di rebirthing che ne segna l’ingresso nel vivo della rappresentazione, ‘spogliato’ dell’abito iniziale – e poi in successione dialogare fisicamente con le altre figure, che l’avvolgono in drappi fruscianti facendone groppo filiale; e ancora, in una danza carnale evocando i passaggi dell’età, la crescita, il susseguirsi delle relazioni, fino a che è lui stesso a tenere in braccio una delle figure di contorno, segnando di fatto il proprio transito all’età adulta e, con essa, la relazione che muta anche con la figura paterna, unica “essenza” (benché assenza) maschile tra i figuranti che lo raggiungono da fondo scena.
I corpi si muovono seguendo una ritmica cadenzata, senza variazioni desultorie, come a voler lasciar scorrere in un’unica, ininterrotta congerie dinamica il percorso esistenziale.
È intenso Palumbo nel farsi materia scenica, nel fare del suo corpo viluppo di carne ed emozioni, nel lasciarsi attraversare da un flusso coscienziale lungo una vita intera che stia lì a prodursi in racconto di sé (di un sé possibile, di tanti sé più o meno universali), per andare a concludersi con una sorta di elegia fisica della memoria allorquando, al tramonto dello spettacolo, dopo aver attraversato le fasi dell’amore, del distacco e della catarsi che avviene sotto forma di abluzioni, gli fan da contorno fotografie e immagini che odorano di passato e pacificazione, di percorso compiuto e giunto ad un punto d’arrivo (intermedio? conclusivo? è irrilevante; o meglio: ogni punto d’arrivo finisce per essere anche punto di ripartenza).
Lo spettacolo, vincitore del Premio Gennaro Vitiello 2023, possiede forza evocativa nelle parti che lo compongono: dall’intensità interpretativa al panorama sonoro che l’accompagna; lo coadiuva un disegno luci (Mauro Varchetta) che, nella sua semplice essenzialità, serve a suggerire una dilatazione della profondità dello spazio, contribuendo a rendere suggestivo l’impianto scenografico, improntato alle nuance del blu e del nero.
Non c’è parola proferita, tutto è affidato a segni non verbali, gestuali e sonori. Ne consegue la confezione di un lavoro sulle suggestioni, un gioco complesso di richiami ancestrali e vissuti interiori che viaggiano lungo i binari personali di una elucubrazione magmatica che prende una sua forma e una sua direzione sostanzialmente coerenti, le cui criticità risiedono semmai nella labilità di qualche aggancio tra significante e significato, frutto di qualche stilema che parrebbe non essersi ancora scrollato di dosso la residualità delle fasi preparatorie che sottendono alla creazione, ma che nel complesso arriva allo spettatore con il portato emozionale di cui si era proposto di farsi vettore.
“Era mio padre” è evocazione eterea e si offre allo sguardo di chi v’assiste come ricamo scenico sottile d’un afflato delicato e profondo, una ricerca del sé messa in condivisione tra palco e platea.
Era mio padre
una performance di Mauro Maurizio Palumbo
progetto, drammaturgia e costumi Mauro Maurizio Palumbo
con Nadia De Crescenzo, Salvatore Camerlingo, Sabrina Santoro, Ilaria Tucci
luci Mauro Varchetta
produzione Ente Teatro Cronaca
Era mio padre è vincitore del Premio Gennaro Vitiello 2023
durata: 40’
applausi del pubblico: 2’
Visto a Napoli, Sala Assoli, il 15 ottobre 2023