Al Teatro Storchi di Modena il debutto italiano della coproduzione internazionale supportata da ERT
Quando il Teatro Nazionale di Strasburgo ha commissionato una pièce a Pascal Rambert, il celebre e pluripremiato drammaturgo francese si è reso conto che, dalla lista delle maestranze disponibili, mancava il nome di Véronique Nordey, madre del direttore del teatro Stanislas Nordey e nota attrice francese, deceduta da poco.
Ciò ha fornito lo spunto per la scrittura dello spettacolo “Mon absente”, andato in scena in prima nazionale al Teatro Storchi di Modena il 27 e 28 gennaio. Un lavoro che tuttavia non è nato con l’intento di essere una biografia dell’attrice, quanto semmai di indagare la possibilità di riuscire a fare un ritratto esaustivo di qualcuno dopo la sua morte.
In particolare, ciò che interessava a Rambert, come ha sottolineato nell’incontro col pubblico che si è svolto dopo la prima italiana, era mettere al centro la relazione genitori-figli. Un rapporto in cui intimità e distanza oscillano sempre in modo imprevedibile, e in cui riuscire a conoscersi davvero è spesso più difficile di quel che sembra.
Ecco perché sono innanzitutto i sei figli della defunta, nati tutti da padri diversi, ad alternarsi attorno alla sua bara per un ultimo saluto, accompagnati da due delle nipoti (una insieme alla fidanzata), dall’ex moglie di uno dei sei padri e dalla sua stessa figlia. Un agglomerato di personaggi che tradisce da subito una sovrabbondanza e una complessità che forse rappresentano uno dei maggiori punti deboli dello spettacolo.
I personaggi sfilano dando vita a una serie di monologhi, una modalità a cui Pascal Rambert è affezionato, che in quest’occasione vengono interrotti da alcune interazioni tra i protagonisti e da un paio di scene di gruppo.
Una girandola di varia umanità che, rivolgendosi alla bara posta al centro di una scena ricreante una sorta di camera mortuaria, ricordano, insultano, recriminano, si sfogano, si disperano, portano omaggio, si confessano o fanno un bilancio della propria vita a partire proprio dalla morte di questa madre, nonna, amica, rivale in amore, scrittrice famosa e ammirata, che ha vissuto in bilico tra Francia e Africa, tra successi e povertà, immersa nel profondo legame che, nonostante i suoi lati oscuri e anche grazie a quelli, lega questa grande e peculiare famiglia.
La scenografia è spoglia: al centro del palco la bara è circondata di fiori e inondata da un fascio di luce, in uno spazio per il resto in penombra o direttamente al buio, come al di là delle tende nere semitrasparenti che delimitano i lati della scena, dietro cui sfilano i parenti in arrivo o in uscita.
In alcuni momenti, in particolare quando i personaggi si incontrano e interagiscono, o a sottolineare passaggi di maggiore intensità, il palco viene illuminato di più o posto al buio totale, senza che la recitazione si interrompa: le luci curate da Yves Godin punteggiano lo scorrere della drammaturgia e contrastano efficacemente la staticità dell’insieme. Che viene anche rotta dall’inserimento a video di testi sms ricevuti o inviati dai personaggi, una trovata interessante non tanto per l’aggiunta di elementi di contenuto, quanto perché offre uno squarcio di vita vera in un contesto di temi e snodi narrativi che a tratti paiono troppo costruiti, a volte didascalici, altre un po’ prevedibili. Come se, nella pausa dedicata all’invio di sms, i personaggi immersi in questa sorta di recita rivolta alla bara prendessero davvero vita.
Innumerevoli sono i temi toccati: la violenza genitoriale, l’alcolismo, la promiscuità sessuale, i rapporti tra genitori e figli e tra fratelli, la povertà, l’immigrazione, il legame tra Europa e Africa, lo sradicamento geografico e culturale, la vecchiaia e il decadimento, l’identità sessuale e di genere, la malattia, il modo in cui il lavoro definisce le persone, la salute mentale…
Il tutto ruota attorno al tentativo di ricostruire, in maniera caleidoscopica ma con sensibilità e approfondimento, una vita in poche ore. Un risultato che tuttavia avrebbe forse potuto essere raggiunto in modo più potente scegliendo di semplificare, optando per uno stile meno letterariamente verboso e, per quanto riguarda la recitazione, meno declamato. Non a caso i momenti più emozionanti vengono da interpreti che, come Audrey Bonnet e Vincent Dissez, riescono meglio a rompere l’artificiosità dell’insieme, portando più calore nei rispettivi personaggi.
In tutto ciò, il tema della scrittura, uno dei tanti che vengono trattati, funziona più degli altri e merita un cenno particolare. Il mestiere della defunta riveste spesso un ruolo centrale nei monologhi che si susseguono, ed è un perno interessante attorno al quale i personaggi la definiscono o finiscono per definire sé stessi.
La scrittura, presentata come un bisogno quasi fisico, che regala ma contemporaneamente sottrae vita, è una via di fuga dall’intollerabilità della vita reale; e d’altro canto comporta una lacerazione interiore che ha bisogno dell’alcool per venire sopportata. E’ una forza incontrollabile e una relazione tossica che trascina nell’abisso, una dipendenza a cui sacrificare i propri affetti. Ma anche un’attività capace di dare un senso alla propria vita e di trasformare quella dei lettori che ne vengono toccati, e così cambiare il mondo.
Da questo punto di vista, proprio attorno al tema della scrittura lo spettacolo, paradossalmente (o magari non troppo, visto il mestiere di Rambert e la sua fascinazione per il potere del linguaggio e delle parole), esce dalla sua dimensione più letteraria per prendere vita. Dopo tutto, le parole sono al centro del lavoro e della sua sfida di racchiudere in due ore una vita intera. Parole con un faro puntato addosso, proprio come la bara al centro della scena. E’ la riflessione su di esse e sul mestiere dello scrittore il punto in cui questa sfida acquista la sua dimensione più riuscita.
Mon absente
testo, regia e allestimento Pascal Rambert
traduzione Chiara Elefante
con Audrey Bonnet, Océane Cairaty, Vincent Dissez, Houédo Dieu-Donné Parfait Dossa, Claude Duparfait, Mata
Gabin, Stanislas Nordey, Ysanis Padonou, Mélody Pini, Laurent Sauvage, Claire Toubin
luci Yves Godin
costumi Anaïs Romand
musica Alexandre Meyer
collaborazione artistica Pauline Roussille
direttore di scena Félix Löhmann
elettricista Thierry Morin
fonico Chloé Levoy
macchinista Antoine Giraud
video Jean-Christophe Aubert
sarta Marion Regnier
assistente alla regia e suggeritore Davide Brancato
direttrice di produzione Pauline Roussille
coordinatrice di produzione Sabine Aznar
produzione structure production, Châteauvallon-Liberté scène nationale (FR)
coproduzione TNS – Théâtre National de Strasbourg (FR), ExtraPôle Provence Alpes Côte d’Azur*(FR), La Criée- Théâtre National de Marseille (FR), Théâtre Gymnase-Bernardine (FR), Théâtre National de Nice (FR), Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale (IT)
durata: 2h
applausi del pubblico: 2’ 50’’
Visto a Modena, Teatro Storchi, il 27 gennaio 2024
Prima nazionale