“The cake” di Rébecca Chaillon e “Rive” di Dalila Belaza. Gli accostamenti audaci di Santarcangelo

The cake (ph: Pietro Bertora)
The cake (ph: Pietro Bertora)

Performance che propongono metafore e immagini forti affiancano spettacoli più tradizionali: nel mezzo sta il pubblico, che sa di aver scelto un festival politicamente schierato

Ancora a Santarcangelo, partecipiamo alla giornata conclusiva del festival diretto da Tomasz Kireńczuk, che abbiamo intervistato anche al debutto di questa edizione.
È una giornata non meno convulsa di altre e, come sempre, la gamma di lavori proposta dallo storico contenitore, che è insieme una visione del mondo, uno sguardo verso l’imponderabile performativo e un posizionamento politico, è assai ampia. Si va da un lavoro di danza tradizionale, strutturato, scritto nel dettaglio considerando ogni dettaglio, “Rive” di Dalila Belaza, per il quale occorre spostarsi al teatro Amintore Galli di Rimini, alla performance pura di Rébecca Chaillon “The cake”, ultimo lavoro in scena in quest’edizione, alle 23:30 nel parco Baden-Powell, sotto un tendone da circo.

Ed è proprio di questi due lavori, che si pongono agli estremi di una incomunicabilità tra linguaggi di cui è compito e ricchezza dello spettatore trarre le fila, che è interessante qui parlare. Anche se non trascurabile sul pubblico è anche l’effetto prodotto dalla scrittura oltremodo semplice, a rondò, del duo brasiliano composto da Davi Pontes e Wallace Ferreira, in scena nella palestra dell’ITSE Molnari con il loro “Repertorio n°3”. Qui, in un lavoro che è parte di una trilogia “sul tema dell’autodifesa” dalla violenza, il refrain è un modulo di passo-marcetta in due, forte sul secondo tempo, e gli episodi consistono in diverse strategie di approccio non sempre amichevole col pubblico, il quale, ai due corpi completamente nudi (a eccezione di scarpe e calze bianche con l’evidente logo Nike) e sempre più sudati degli artisti, deve imparare a rispondere.

Ma partiamo dal finale, dalla performance data dall’artista francese con origini della Martinica Rébecca Chaillon, presente a Santarcangelo anche con “La gouienarie” insieme a Sandra Calderan, dove a essere decostruita era la rigidità di una famiglia tradizionale.
In “The cake” Chaillon, sempre armata di un metaforico bisturi, entra nel vivo di un’altra tradizione, quella della torta di compleanno, che è da un lato convenzione, cioè segnale della divisione del tempo in anni e celebrazione ripetuta del suo passaggio sulla biografia di una persona; dall’altro, nella sua commestibilità, il dolce con le candeline è capace di svelare dettagli socio-economici del dedicatario, più o meno colto, ricco, e si fa eccitatore, in terza istanza, di una costellazione di argomenti legati alla tematica dell’alimentazione, fin nelle pieghe patologiche dei disagi alimentari.

La prima parte della performance, guidata da una voce registrata che passa in rassegna queste linee tematiche, è seguita da una sezione in cui Chaillon decostruisce la preparazione della torta. E lo fa fuor di metafora, ingurgitandone, ingrediente per ingrediente, tutti i componenti, dalla farina, al latte, alle uova crude, al burro, la cui ultima porzione, davvero troppo ardua da affrontare, finisce spinta tra le cosce e il sesso della performer.
Qui si vede bene come la testarda, faticosa operazione di inghiottimento non può che rivolgersi sul pubblico, che in parte preferisce, facendosi carico di una nuova inconsapevole censura, unirsi allo stile comunicativo tuttavia leggero della performer, ridendo, applaudendo a ogni ingrediente ingurgitato. Altri, forse la maggioranza, non possono fare a meno di sentire rispecchiate sulla propria carne, dentro il proprio esofago, diremmo, la violenza dell’inserimento forzato, la repulsione drammatica.
Ancor di più ciò accade quando la “cottura” del dolce avviene tramite l’accensione di diverse sigarette contemporaneamente, che Chaillon fuma tenendole tutte fra le labbra, e che causano a lei in primis uno sbocco di vomito.
Questo è il punto più dolente della performance, non tanto per il rigetto, pudicamente nascosto con un rapido voltarsi spalle al pubblico, ma per una parentesi che segue l’incidente (non?) previsto: l’enorme corpo dell’artista, finora coperto solo da una larga maglia a rete e da un grembiule da cuoco, si denuda e, con l’aiuto di un paio di assistenti finora un po’ sadici e un po’ ironici, ma in questo frangente semplicemente amorevoli, si pulisce con cura sul ventre, attorno al collo e sotto i grandi seni, sollevati con gesti sicuri ma dolenti.

Infine la terza parte riprende la preparazione: Chaillon si spalma busto, braccia, spalle, pancia, ora nudi e puliti, con crema al cacao e si fa cospargere di decorazioni zuccherine. Invita poi il pubblico a “mangiarla”. Non dovrà attendere molto: a ondate o a singoli salgono sul palco e piluccano da spalle e braccia le decorazioni da pasticceria gli spettatori di Santarcangelo.

Questo lavoro che, come si vede, non presenta particolari soluzioni rispetto alle pratiche della body art, né approfondisce in termini concettuali i temi che pone sul tavolo, è però fortemente comunicativo attraverso il canale della condivisione per intuizione e rispecchiamento somatici. Intuizione dell’universo di significati legati alla dis-misura dell’alimentazione nella contemporaneità, e di una dinamica interno/esterno compromessa (sovra-ingestione/cattiva eliminazione; inserimento/cospargimento; denudamento/offerta del sé sotto forma di pellicola edulcorata), una dinamica in cui il corpo è punto gravitazionale attorno a cui orbitano i discorsi, e con il quale – attraverso il quale – si dialoga con i corpi spettatori.
Ed è attraverso la risposta empatica del rispecchiamento che la performance agisce, con una scossa di fatica, disgusto, per alcuni di inaccettabile violenza autoperpetrata, per altri di divertimento dinanzi a un giocoso monstrum, di cui si è deciso di accettare la scorza esterna di leggerezza, non il pesante indigesto accumulo dell’interno.

Rive (ph: Pietro Bertora)
Rive (ph: Pietro Bertora)

Dalila Belaza, conosciuta come performer per Nacera, di cui ci aveva colpito il terzetto di “Sur le fil” in un antico Short Theatre, la riconosciamo figlia (e sorella) di quell’arte del giro morbido, della rotazione come accoglimento del ritmo, come fatto culturale atavico nel corpo, suo corteggiamento innamorato che si avvita docile fino al punto in cui, naturalmente, deve svolgersi, secondo un identico tempo ma in un verso opposto. Ma anche come l’artista del nero su fondo nero, dell’eliminazione di ogni seppur minimo elemento esornativo che corteggi con il dettaglio lo sguardo dello spettatore, ogni distrazione.

È proprio così che Belaza entra in scena, in ribalta, sotto forse l’unica luce frontale pura di tutto lo spettacolo. La percorre danzando quel ritmo, appena delineata nel nero, mollemente incurvata, interiore, in una concentrazione al cui interno può annidarsi la melanconia e il piacere, indistinguibili.
Poi dal fondo compaiono altre sei sagome, avanzano e indietreggiano rapide, leggerissime, a ondate e risacche, ora perfettamente sincrone, ora con leggere sfasature, le quali, si vedrà di lì a poco, quando Belaza uscendo le lascerà sole, sono l’innesco di quel motore unico del lavoro che è il mutamento, lo sviluppo, in una dinamica così naturale da presentarsi come fisiologica. E come il movimento è agito lungo questa dinamica con tratto poetico e coerente, così l’intero palco è scritto interamente, coerentemente da Belaza (sue anche luci e suono), come un unico oggetto.
Il disegno luci è instancabile, ed è danzante anch’esso, cioè si mostra capace di muoversi stretto con i corpi, con le sue quattro file di proiettori in americana, una di controluci, alcuni più larghi, da fondale, una fila di fluorescenti, il tutto con il medesimo colore freddo e l’ammorbidimento del frost; un disegno così vivace che a tratti è percorso da note di ironica autoreferenzialità, laddove i corpi illuminanti sembrano parlarsi tra di loro, in un idioletto ammiccante, in certi cambi simmetrici che puoi notare solo dalle prime file della platea.

Loro, i danzatori (cinque uomini – Jamil Attar, Paulin Banc, Adam Chado, Andrés Garcia Martinez, Dovydas Strimaitis – e una donna, l’inarrestabile, entusiasmante Erica Bravini), non escono mai dal pulsare del ritmo, e raramente anche dalla porzione di palco a loro assegnata dall’inizio, presi da un demone gentile che li scuote lungo il senso della verticale e non li abbandona per tutto il corso dello spettacolo. Salvo arrivare poi a perderla, quella gentilezza: le braccia si sollevano, la compostezza si dissipa, persino la verticale, finora strenuamente difesa, ordinatrice, è messa in discussione, e la luce riesce persino a penetrare tra le pieghe dei loro corpi a nero, esponendoli distesi alla musica sempre più incalzante, divenuta un coro di comunità.
Ora i danzatori distendono le braccia e le mani, chiare in fondo alle maniche lunghe e nere, costruiscono una nuova specie di creature, e basta che quei prolungamenti imparino una minima frammentazione all’altezza del gomito che ecco, si dà vita a una nuova specie, evoluta, che si slancia da quei corpi. Così, nella musica capita che emerga un suono fisso di alienazione, e il movimento si direbbe che ne sia sconvolto – ma anzi, meglio riconoscere che, semplicemente, vi si adegua.
Luci, suono, corpi creano figure con materiali poveri non nella tecnica, arditissima, ma nella tecnologia, comprensibili seppur inarrivabili. “Rive” è niente di meno che la scrittura di un organismo di palco dotato di una vita biologicamente verosimile, che si conclude come si era aperto, con Dalila Belaza in proscenio a riprendere il proprio assolo interiore e a unirsi al coro dei suoi “figli”, prima che, come ogni giorno dall’inizio del tempo, scenda sulla Terra il buio.

THE CAKE
di e con Rébecca Chaillon
produzione Compagnie Dans le Ventre

durata: 50′
applausi del pubblico: 2′ 15’’

 

 

RIVE
concept, coreografia, sound, light design Dalila Belaza
con Jamil Attar, Paulin Banc, Dalila Belaza, Erica Bravini, Adam Chado, Andrés Garcia Martinez, Dovydas Strimaitis
luci Alexandre Barthélémy
suono Solal Mazeran
produzione hiya company – Jour association
coproduzione Montpellier Danse, Théâtre de la Ville de Paris, CNDC Angers, Charleroi Danse – Centre Chorégraphique de la Fédération Wallonie-Bruxelles, CCN2 – Centre Chorégraphique National de Grenoble, CCN – Ballet National de Marseille
con il sostegno di DRAC Ile-de-France, Région Ile-de-France, ADAMI
sponsor Caisse des Dépôts
studio di danza CND Pantin, La Briqueterie – CDCN du Val de Marne
progetto realizzato con il supporto di Institut français
in collaborazione con Comune di Rimini

durata: 50′
applausi del pubblico: 3′ 15”

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