Mario Autore e la compagnia Teatro in Fabula presentano la prima tappa di un progetto su Shakespeare fra musica e dialetto
Tradurre e tradire. Due concetti che formano un binomio plausibile quando ci si accosta a Shakespeare (ma il discorso potrebbe estendersi alla drammaturgia che abbiamo in dote, tout court); tradurre e tradire, ovvero smarcarsi dal pedissequo ripetersi – o peggio scimmiottare – quanto di classico la tradizione ci lascia in dote. È questo l’intento dichiarato di Antonio Piccolo e della Compagnia Teatro in Fabula: l’”Amleto” è il terreno di questo cimento, il napoletano la lingua in cui operare fedifraga traslazione.
Siamo al Teatro dei Piccoli, a Fuorigrotta, nell’ambito di “Settembre in Pineta”, iniziativa a cura di Casa del Contemporaneo, e che rientra nel progetto “Affabulazione”, promosso dal Comune di Napoli e finanziata dal Fondo nazionale per lo spettacolo dal vivo del Ministero della Cultura.
Esito di una residenza, quel che vediamo su palco è il primo atto dell’”Amleto”, sfrondato d’orpelli scenici, nudo e crudo, testo e attori, scansione scenica fedele all’originale e rielaborazione per immagini, suoni e parole ricalibrata seguendo una propria poetica, rimescolando simbologie e figure in chiave contemporanea, in ottemperanza al dettame kottiano che vuole l’”Amleto” potersi sempre rivelare aderente e malleabile all’epoca in cui viene rappresentato. E, a ben pensarci, quelle tematiche universali che permeano la vicenda del Principe di Danimarca, con tutti i sommovimenti dell’animo che ne scaturiscono, consentono di scorgere un riverbero e una similitudine possibile tanto in materia generale (le lotte per il potere, le dinamiche relazionali, i criteri valoriali), quanto per le questioni particolari (i travagli interiori, i dissidi della coscienza, le sfaccettature della psiche umana).
E parla, quest’”Amleto” – che in questa versione assume titolo di “La traggedia d’Amleto_Préncepe de Danemarca” – oltre che adoperando il napoletano, anche usando i linguaggi della scena, del teatro di figura, indossando maschere e facendo apparire simbolici burattini, mescolandosi con musicalità partenopee, che contribuiscono da un lato a calare l’opera in questo tempo e in questo contesto, dall’altro a conferirle quel gusto giocoso della contaminazione (di generi, di stili), mostrando altresì osservanza ad esempio alla pratica shakespeariana del doubling, per cui vediamo i soli quattro attori in scena – Mario Autore, Giuseppe Cerrone, Melissa Di Genova, Antonio Piccolo – interpretare più ruoli, entrando e uscendo da un personaggio all’altro (e facendolo peraltro bene).
Si condensa, tutto ciò, nel solo primo atto trasposto, prodromo di un’opera di cui sarà interessante scrutare la prosecuzione, per averne infine impressione complessiva e poter così leggere l’operazione nella sua interezza. Per ora, quel che vediamo piace, diverte, e solletica il lavoro di collazione tra l’originale e la sua – pur parziale – rielaborazione. Ad ora, non ci sono scene né costumi, le luci sono ridotte all’essenziale e tutto avviene demandato all’interpretazione attoriale e a pochi segni scenici, come Amleto che indossa una maglia su cui spicca un teschio, o come un piccolo lampadario che cala dall’alto e segna il passaggio dagli spalti del castello d’Elsinore al suo interno. Così come ad esempio l’usurpatore Claudio viene connotato buffo e smargiasso dalla corona calata sulle ventitré.
Dicevamo delle musiche, del loro valore di sottolineatura estremamente simbolico ed evocativo, per cui lo spettro di Amleto padre fa la sua apparizione a ritmo di tarantella e Ofelia, ad esempio, canta in napoletano. Ma non solo: significativo è l’ingresso in scena di Claudio che esclama ‘mariomerolescamente’ “felicissima sera!”; e d’altronde, cos’è la tragedia familiare che si consuma alla corte d’Elsinore se non, in un certo senso, la tipica situazione da sceneggiata con Amleto senior, Gertrude e Claudio nei rispettivi ruoli di “isso, essa e ‘o malamente”?
Il contrappunto musicale trova infine il suo epilogo nel rimarcare la nascente follia di Amleto, su cui si chiude il primo atto, vedendolo uscire di scena sulla note di “Je so’ pazzo” di Pino Daniele.
Insomma, un gioco sapientemente orchestrato e positivamente riuscito, con intuizioni che ben promettono nel loro sviluppo futuribile. In attesa che il tradimento tradotto conosca compimento, e che il resto (dell’opera) risuoni nell’idioma di Partenope, in parole e musica, prima di farsi silenzio.
La traggedia d’Amleto_Préncepe de Danemarca
traduzione e tradimento di Antonio Piccolo
regia Mario Autore
con Mario Autore, Giuseppe Cerrone, Melissa Di Genova, Antonio Piccolo
assistente alla regia Giovanni Sbarra
collaborazione elementi scenici Antonia Cerullo
durata: 40’
applausi del pubblico: 2’ 20’’
Visto a Napoli, Teatro dei Piccoli, l’8 settembre 2024