Tra le varie proposte colpiscono quelle di Maia Joseph, Giulia Cannas e della compagnia Indaco
La seconda settimana di Venere in teatro ha continuato ad offrire una grande varietà di forme, linguaggi, motivi di ispirazione, convergendo sui temi della marginalità e della fragilità.
Nel calendario due appuntamenti hanno reso protagonisti interpreti con la sindrome di Down: il debutto di “Confini”, con 10 elementi della compagnia Din Don Down diretta da Pippo Gentile, e “Balm”, studio di una coreografia firmata da Rachel Calleja e danzata da Niels Plotard e Angela Bettoni, artista attivista per i diritti delle persone diversamente abili.
Entrambe le esperienze hanno espresso il desiderio e le potenzialità di una connessione che superi e lenisca paure, diffidenze e la ferita di sentirsi isolati ed invisibili agli occhi altrui, che sembra riguardare sempre più soggetti, a prescindere dalle classificazioni. Ecco quindi che gli occhi degli interpreti amplificano un bisogno di relazione e di una società più coesa, che in questo momento storico riusciamo a condividere con maggior immedesimazione.
Istanze analoghe sono risultate leggibili in due creazioni interpretate da performer di colore: blackmilk del sudafricano Tiran Willemse e “The Other” della canadese Maia Joseph.
Mentre nel primo l’interessante impianto concettuale non pare aver trovato un corrispondente traslato performativo all’altezza, la breve performance (10 minuti) di Maia Joseph risulta di grande impatto. Il suo corpo nero si offre disteso su uno spazio completamente bianco. Prende vita lentamente, alzandosi, guardando il pubblico, come si trovasse al centro di un’arena. L’intenzione dello sguardo è decisa, a volte sfidante, fino a concentrare una rabbia appena trattenuta dall’esplodere. Il corpo indaga le possibilità di movimento, attraverso passaggi che arrivano al parossismo e rasentano la nevrosi. La mimica facciale alterna in modo concitato le espressioni più varie, dalla cortesia timida o accondiscendente, alla lussuria, al demoniaco. Tra un cambio di apparenza e l’altra, le mani risalgono alla gola, dove la voce si arresta e la parola è trattenuta. Il lavoro, infatti, muove da un presupposto chiaro, frutto di esperienze personali oltre che di rilievi sociologici teorici: «C’è un potere nello scegliere quando parlare e sapere quando rimanere in silenzio. Tuttavia, non tutti possono permettersi il lusso di questa scelta. L’Altro rappresenta i differenti fattori culturali, politici, razziali e genetici, che cambiano la voce di alcuni, mentre permettono ad altri di regolare il loro volume».
Icasticamente cala il buio conclusivo sulla perfomance quando l’interprete avanza verso il pubblico, fino al limite della scena, e si sporge per prendere una parola a cui non è dato di essere ascoltata. «Sono spesso quelli che cercano con più forza di entrare nel dibattito che vengono silenziati di più» e che sono costretti ad ascoltare soltanto le voci altrui, senza riconoscere la propria.
Speculare ma declinato con un registro opposto, ovvero comico, la creazione di Alina Petrică, inserita fra le tre “Scenes of (R)evolution” sostenute dall’Istituto di Cultura Rumena. Danzatrice con doti canore, dissacra gli stereotipi relativi all’estetica femminile e al ruolo della donna, contestando la riduzione a marionetta del desiderio. Alina mantiene l’attenzione del pubblico inserendo elementi di intrigante curiosità e sorpresa, e alternando sensualità a parodia.
Attraverso una call nazionale è stata selezionata Giulia Cannas, che presenta uno studio di “No caption needed”. L’assolo prende le mosse da uno stato di fragilità e disorientamento, sia fisico che emotivo: nel silenzio i movimenti delle braccia e del corpo si avviano titubanti, flebili, timidi, e l’espressione del volto, in direzione del pubblico, è timorosa.
La sala sembra essere perlustrata come una grande e vuota prigione che non può essere sfondata e in cui progressivamente si delinea la consapevolezza della propria impotenza. Una prima reazione è innescata dalla musica di Iceboy Violet, rapper queer, sul crinale tra spoken words e trap, scandite su un tappeto elettronico fortemente beat: la sua spinta sonora e musicale fa da leva ad un’energia fisica tinta di rabbia, a gesti decisi, espressioni sicure e una corporeità più risoluta, ai limiti dell’aggressività. Prende forma una fisionomia che contrasta non solo con la sagoma diafana iniziale, ma anche con l’identità femminile che la esprime. Giustamente l’opera viene presentata come «una danza sincera, arrabbiata, feroce, potente, disarmante».
Ma Giulia Cannas chi interpreta? «Forti identità che emergono dalle periferie, qualcuno che ha bisogno di far sentire la sua voce», con cui lei stessa empatizza in virtù del suo essere donna, appartenente al movimento LGBTQ+, sarda e per di più di una tra le più povere province dell’isola. «La danza si fa forma di protesta culturale e sociale, mossa da una rabbia generativa, tipica dei giovani in rivolta cresciuti in ambienti svantaggiati, trasformandola in energia vitale e forza motrice per il cambiamento». Affermare la propria presenza, non confonderla né cancellarne i contorni, è già in sé un atto di manifestazione. Tuttavia, nel corpo a corpo col vuoto che va in scena, il soggetto arriva a sfinirsi e questo primo studio volge alla conclusione con una successione di cadute che condannano di nuovo a terra una figura immaginata come «un pesce fuor d’acqua».
Ad altra condizione di fragilità, che si tende ad estromettere dal nostro immaginario e dalle nostre vite, rinvia “Il tuo corpo nido e cielo aperto”, coreografia firmata da Laura Boato e interpretata da Giovanni Fregonese, Laura Gagliardi, Michela Lorenzano, Carla Marazzato, in una produzione della compagnia Indaco. Si tratta di una creazione delicatissima, a tratti eterea, pur fondandosi su una corporeità solida, tangibile e precisa nei movimenti.
Attorno ad un corpo rannicchiato ed inerte al centro di una scena buia, convergono tagli di luce diagonali e alcune figure cercano a vicenda ciascuna il proprio modo per restargli accanto: un tempo dedicato anche a se stessi, per salutare chi sta per andarsene senza che ciò accada per abrasioni nette. Colpisce il contrasto tra l’immobilità prolungata del corpo centrale e l’avvicendamento degli altri, che alla contrapposizione fanno seguire l’accettazione e, dall’ombra, portano alla luce tocchi, carezze, contatti tra brandelli di pelle ed estremità trascurate, mani che simulano la schiusura simbolica di un fiore.
In una fase storica in cui siamo più inclini a distanziare e delegare la gestione del fine vita, ci viene qui prospettata un’alternativa. La comprendiamo chiaramente quando quel corpo fino a prima inerte si prepara al grande viaggio costruendo una scena densa di lirismo, accentuata dalle modulazioni oniriche di Max Richter, e Michela Lorenzano si esibisce in un assolo elegantissimo e immaginifico.
La memoria fisica di quanto ricevuto, siano sguardi muti, sussurri, spinte, sembra tradursi in un lievito emotivo che alleggerisce il suo corpo, prima apparentemente pesante, e lo rende soffice e pregno di memorie e condivisioni. Può quindi aggirarsi tra gli altri interpreti immobili e a ciascuno, pur senza incrociarne lo sguardo, restituire qualcosa, una forma singolare di empatia e vicinanza, quasi a suggerire che chi se ne va, ci resta accanto come punto di riferimento interiore, bussola per il nostro viaggio che procede in sua assenza.
Visivamente risultano efficaci i contrasti netti tra il buio e puntamenti di luce mirati su pochissimi dettagli. Altrettanto, la simmetria tra i corpi è modulata con precisione geometrica, raffinatezza, solidità interiore. Ma è soprattutto la scrittura coreografica, che indaga meccanismi psicologici senza pronunciarli, a far scattare un’immedesimazione muta nei corpi in scena che non ammette sottrazioni ad un impatto vibrante.
La conclusione, infine, accompagna anche gli spettatori cullandoli nello sciabordio dell’ampio mare che tutti ci attende, in un saluto delicatissimo tra una silhouette natante distesa al centro e i suoi cari a fondo palco. Anche la morte, quindi, può essere un passaggio e non uno strappo, se ci prendiamo cura della relazione.
«Fare esperienze» è proprio una delle opportunità che il festival vuole offrire al suo pubblico e ai suoi ospiti, esponendoli ad una crescita individuale che non sia soltanto culturale ma anche personale e sociale. «Lo staff stesso di Live Arts Cultures è una squadra che si è coesa nel tempo grazie ad esperienze che hanno favorito il riconoscimento di comuni intenti e valori: ciò consente di stabilire un’armonia accogliente anche nei confronti degli artisti ed efficiente in situazioni non convenzionali per la danza». La direttrice artistica Marianna Andrigo conclude quest’edizione traendo un bilancio che la proietta verso la successiva, immaginando di allargare ancor più la geografia del pubblico, delle partnership, così come le collaborazioni che possono generare le condizioni per ospitare residenze e restituzioni da inserire nel palinsesto.
Ma ottobre porta già nuovi impegni per Live Arts Cultures che, in sinergia con altre realtà artistiche e culturali, la rassegna YouTheater al Teatro del Parco della Bissuola di Mestre (VE), per quanto riguarda la sezione di danza: saranno ospitati il collettivo Kinkaleri (24 ottobre), il gruppo russo-nipponico Awaji (15 novembre), la Carolyn Carlson Company (22 novembre) che terrà anche una masterclass, infine Cie Les 3 Plumes (19 dicembre).