Incontriamo Giulio Cavalli al Teatro della Cooperativa di Milano, dove dal 6 al 18 ottobre ha presentato in prima assoluta “A cento passi dal Duomo”. Il testo, redatto a quattro mani con Gianni Barbacetto, già autore di un’approfondita indagine sui trasformismi delle mafie nel tessuto imprenditoriale lombardo, è concepito per la scena come un monologo, il cui tempo è definito da alcuni interventi musicali di Gaetano Liguori al pianoforte. Quasi una “colonna sonora” da inchiesta giornalistica, che coinvolge emotivamente lo spettatore con un ritmo sempre più acceso, fino ad evocare improbabili icone cinematografiche.
Il trentaduenne lodigiano – qualche sera fa ospite di un incredulo Michele Santoro ad Annozero per una vicenda che da alcuni anni lo coinvolge a livello professionale e personale (vive sotto scorta) – entra dentro i vicoli di Mafiopoli a partire da un «funerale a forma di buco»: l’ultimo indegno saluto a Giorgio Ambrosoli (avvocato milanese assassinato da un sicario ingaggiato dal banchiere Michele Sindona, sulle cui attività aveva ricevuto incarico di indagare), silenziosamente consumatosi alla presenza dei soli familiari in un dimenticato giorno di luglio del 1979.
La poetica della narrazione commuove, in particolare chi i ligrestiani anni Ottanta non li ha dimenticati e in quel cemento ha tentato di costruire qualcosa di simile a una vita. «Milano, sacerdotessa prostituita alla propria masturbazione». Certe frasi sono talmente intense da desiderare di portarsele via, ma cadono sotto una mitragliata di nomi e cognomi. Il dio dell’estetica combatte contro il diavolo della politica, e le parole sono i suoi feriti. Tragicamente efficaci, alcuni inserti televisivi contribuiscono a dir la verità, e chi cerca il telecomando per cambiare canale comprende il dovere di ascoltare, di essere “in servizio”, proprio come i due carabinieri in piedi accanto ai fonici di regia. Ma noi non vogliamo dimenticare d’essere in un teatro, e così inizia la nostra conversazione.
Quando hai saputo che avresti fatto l’attore?
Da subito. Appena mi sono trovato in tasca il privilegio di fare questo lavoro e ho deciso di onorarlo (soprattutto insieme al mio pubblico), facendo emergere in superficie storie o palesando angoli di osservazione che solo la liturgia laica del palcoscenico ti permette di lasciar gocciolare con autenticità.
E quando hai deciso, invece, che il tuo sarebbe stato (un) teatro civile?
Trovo che l’espressione «teatro civile» sia una delle etichette più kitsch di questi ultimi anni. Anche perché qualcuno dovrebbe indicarmi, allora, qual è il teatro in-civile. Il confezionamento a tutti i costi dei modi teatrali mi sembra più un “lusus onanistico” per gli addetti ai lavori. Se dovessi definirlo lo chiamerei «teatro partigiano» perché dichiara fin da subito da che parte sta e contro chi e cosa si vuole scagliare; probabilmente, oggi, il mio è un teatro per legittima difesa.
Come ti insegnano i cantastorie «nessun nemico è talmente forte da non essere abbattuto da una risata». Chi è il tuo nemico? Pare di intuire che non sia la mafia in quanto tale, ma quello che chiami “silenzio rosa”. È corretto?
Martin Luther King diceva: «Non mi fanno paura le parole dei violenti ma il silenzio degli onesti». L’articolo 4 della nostra Costituzione (si può ancora dire Costituzione?) attesta che «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Quindi stare fermi non vale. È incostituzionale.
I riti di passaggio delle mafie. Ci hai pensato in termini storico-politici? Li hai studiati? Che cosa hai capito?
Sono nei geni di questo paese, ma come ogni fenomeno umano è destinato a finire, come diceva Giovanni Falcone. Sono in evoluzione continua e si professionalizzano ogni giorno a rispondere colpo su colpo alla magistratura e al giornalismo. Sul piano della bellezza e della cultura saranno sempre con le spalle al muro. La bellezza li inchioda. È un campo in cui non hanno nulla da spendere.
Come consideri la paura dopo quello che ti è capitato? So che non ami parlare del tuo vivere sotto scorta, ma è qualcosa che c’è, che è in scena con te… e mi pare agisca a livello affettivo su come fai quello che fai.
La paura è un effetto; la scorta è un effetto. Non vorrei mai perdere energie e sprecare il tempo della parola distogliendomi dalle cause e dai fatti, che sono gli aspetti che contano. Certo me la porto sulla pelle.
Il tuo teatro “dà di che pensare”, con l’obiettivo di insinuare il dubbio per decostruire la credibilità delle mafie. Come lo controlli il confine tra dubbio e sospetto?
È un problema etico che mi pongo spesso. Lo delego all’esercizio migliore della mia onestà intellettuale, poi il giudizio sul risultato è del pubblico.