I am other. Parigi(ni) e Roma(ni) nello sguardo di Ricci/Forte

Parigi(ni) vs Roma(ni)?
Parigi(ni) vs Roma(ni)?
Parigi(ni) vs Roma(ni)?

C’è un balcone nel 20° (arrondissement) che affaccia su rue des Pyrénées, al secondo piano, proprio sotto le nostre finestre.
Ogni giorno, da anni, il proprietario si prende cura delle piante che affollano la banchina sospesa. Sono unicamente piante grasse, succulente, bolle acquose rivestite di aculei.

Perché, riflettendo, qualcuno dovrebbe coltivare una pianta che fiorisce raramente? Non è peculiarità dei vegetali quella di produrre vita e offrirla a chi si prende cura di loro, anche solo con uno sguardo supplichevole? Perché non offrire le proprie attenzioni a qualcosa che poi ci sbalordisca con una fioritura generosa, seppur temporanea?
Forse il clima, forse la diffidenza dei parigini, così attenti al dispendio minimo energetico per qualcosa che non sia “conveniente” o forse proprio per lo sgomento di dover attivare una manutenzione verso qualcosa di profondamente vitale; la paura dello sboccio, il restare sui margini del rassicurante. Esattamente come i fondi obbligazionari a rendimento contenuto.

Questo ballatoio/serra, così ordinato ed efficiente, fa pensare al mondo culturale italiano, a quella piazza – così apparentemente produttiva e satolla ma rigonfia esclusivamente d’acqua piovana – che porta il nome di Roma. Senza più aspettative di efflorescenza.

Passo dopo passo, prima il brutto ‘affair’ del Teatro Valle (occupato, disoccupato, infine out of order), poi il passaggio di timone del Palladium, che ha trasformato un vibrante polo culturale in una sala giochi da intrattenimento teatrale, infine l’amareggiante sospensione di “Operetta burlesca” di Emma Dante e l’orrido pasto intorno all’Eliseo di via Nazionale, con gli sconfortanti titoli di coda che tutti conosciamo.
Nel mezzo, altre scintille di disorientamento con la ‘querelle’ di “Natale in casa Cupiello”, al Teatro di Roma, uno sguardo consapevole e riuscito di Antonio Latella che ha destato un vespaio nella Critica – finalmente si comincia a considerare alcuni recensori come singoli arroccati e fallibili e a “criticarne” i loro giudizi sommari e parziali – tutta tesa a recintare o meno il teatro contemporaneo in luoghi marchiabili per non ferire la buona fede degli spettatori.

Nel frattempo, però, qui a Parigi è strage. Ci sentiamo, e lo siamo, tutti colpiti. I “Je suis Charlie” appaiono su ogni profilo Facebook dei cugini italiani. Pronti a consumare la notizia, a mostrare cordoglio per la difesa dei diritti di libertà di espressione. Qui a Parigi è notizia di ieri i numeri del corteo di protesta, il più affollato e partecipe della storia di Francia. E tutti, anche in Italia – risvegliati dall’apatia – a fibrillare di sdegno per il doloroso colpo inferto alla democrazia.

Ovviamente una strage, la morte di diciassette innocenti, ha ripercussioni differenti dalle chiusure dei teatri e dall’assenza di legislazione per la sopravvivenza della cultura. Ma il cielo di Parigi, come nelle altre precedenti manifestazioni, ha visto una compattezza, una condivisione reale del problema. Oggi, come ieri, sono scesi tutti in strada per difendere principi assoluti, che fanno dell’agorà intellettuale francese un luogo invidiabile in quanto a fermenti.
Potremmo dire la stessa cosa per il popolo italiano? E allora, esattamente come le succulente piante grasse sulla loggia del secondo piano, cosa coltiviamo nel nostro orto? Quale inerzia ci spinge a non prendere coscienza e agire quando tutto si trasforma in un fade out ?

Il governo francese ha rafforzato la fede nel popolo con un criticabile interventismo militarista e destrorso, un atto di forza – quello della cattura e dell’omicidio dei due esecutori dell’attentato alla redazione – che diventa spot propagandistico per Hollande, in ribasso e affamato di consensi. Ecco che gli applausi francesi hanno diramato le stesse onde sonore di quelli islamici, avvenuti una manciata di ore prima.
A Roma, contemporaneamente, chiusi i teatri e già dimenticati anche gli echi di battaglia trascorsi. Su via Nazionale i cartelli in giallo annunciano un cantiere e la riapertura 2015 dell’Eliseo. E già si stanno agglutinando plotoni di questuanti affamati pronti a difendere la nuova lottizzazione. Forse gli stessi che qualche mese fa protestavano contro la chiusura e le ipotetiche piratesche gestioni, ora placidamente tessono alleanze col nuovo Imperatore. Il Re è nudo ma anche i suoi nuovi sudditi sono pronti a calarsi le braghe per farlo star meglio.

Cosa esiste più, allora? A parte aculei e riserve di acqua? Dove sta la compassione, la partecipazione? Quando è sopraggiunta l’era glaciale che sospinge verso un solitario appagamento delle frustrazioni individuali? Dove si infratta il pensiero? Dove l’infanzia che eravamo, i pantaloni da uomo che avremmo dovuto indossare? Un attentato e la perdita di vite da una parte, una lenta agonia dall’altra.

A parte le cliccate furibonde sui social network, cosa resta di questo oblio sepolcrale in cui sembra essere immersa Roma e l’Italia tutta? ‘Nous sommes tous prêts’ a scriverci sul petto che siamo Charlie senza voler renderci conto che la vita intorno è interrotta. Tutti in fila a dispensare avorio scintillante nelle première teatrali capitoline, logorandoci fegato e reni per azzannare le poche ossa rimaste. Disposti, senza indugi, a formare nuove mute canine, anche tra razze differenti e nemiche fino a ieri: tutto in nome di una zattera da esposizione sulla quale pisciare in tranquillità per marcare il proprio risibile territorio.

E dunque di cosa parliamo, realmente, quando parliamo di libertà?! La maggior parte degli atteggiamenti appaiono ridicoli. Scimmiottano una adesione incollata con lo sputo di un egocentrismo desertico.
Di cosa parliamo quando difendiamo diritti della comunità, se poi come esteti decadenti ci chiudiamo in circoli ristretti, annoiati da tutto quello che non appartiene allo specifico delle nostre conoscenze? Impermeabili a ciò che non ci fa ottenere nulla in termini economici, di prestigio o di superbia.
Di cosa parliamo quando parliamo di Charlie, se non di un vuoto? Rinchiusi nelle frasi in grassetto a rimirare il proprio buco di culo credendolo migliore di altri.
Di cosa parliamo quando parliamo di emancipazione culturale attraverso il rispetto delle visioni altrui, se poi sono le amicizie, le scampagnate, le riunioni di partito e i recettori feromonali a determinare le parole e le azioni?
Di cosa parliamo quando è evidente a tutti che siamo agli albori di una nuova forma umana: il qualunquista privo di codice. Sorriso scaltro, bonomia diffusa, vanagloria sottopelle e accattonaggio maestoso per emanare luce riconosciuta.

Allora, i pochi, vulnerabili, spaventati, come animali in fuga si eclissano ai margini della foresta. Lasciano spazio al nulla. Ma se non siamo noi i primi a salvare il Padre, chi ci salverà dai giorni? I tanti italici “Je suis Charlie” domani verranno soppiantati da altre news alle quali aderire con slancio. Altri teatri chiuderanno, altri coraggiosi sostenitori della cultura indipendente getteranno la spugna vinti dal silenzio assordante di questa amabilità virale. O forse resisteranno. Gli uni e gli altri. Perché chi crede sul serio nella libertà di espressione, agisce sempre con una pistola puntata alla schiena. Con pallottole reali e non tappi di sughero da prosecco.

Noi non siamo Charlie, non abbiamo pagato con la vita le scelte fatte in nome di un diritto democratico. Eppure proviamo ogni giorno ad evitare di trasformarci in quelle riserve di acqua e aculei, ordinate e rassicuranti. Inesorabilmente gemelle. Su un terrazzino di marmo che ha la forma di una lapide.
I Am Other. Piango la morte di civili. Ma anche da noi la guerra della sottrazione di diritti è ormai in fase avanzata. E la stiamo inesorabilmente perdendo.

Ricci/Forte

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