In origine fu l’emigrazione. Poi la mediazione. Poi la speculazione.
La drammaturgia di Stefano Massini, scelta da Luca Ronconi per questo nuovo allestimento, si interessa della vicenda del ramo americano della famiglia ebrea Lehman, i cui tre figli emigrarono nel giro di quattro anni a metà dell’Ottocento dalla fredda Rimpar, Centroeuropa, alla calda Alabama aprendo una botteguccia di legno di quelle che ci si può immaginare, nella ridente cittadina di Montgomery, qualcosa stile Casa nella prateria o film western.
Sessantaquattro assi a comporre il pavimento, dice la drammaturgia. E Marco Rossi, che crea la scena, prende alla lettera la cosa, proponendo un mosaico di tavole di legno. E basta. Il resto sono assi dipinte che vengono su da botole del pavimento, insieme a qualche sedia di solo metallo e lo scheletro di un tavolo. Questa è la spoglia scena.
In alto un orologio. Come quelli che campeggiano nelle stazioni americane, quelli che si vedono nei film.
Il resto è muro bianco.
Si parte dall’attore più anziano per arrivare poi, nello scorrere della dinastia, all’interprete più giovane, Fausto Cabra, per quello che sarà l’ultimo passaggio della saga familiare.
Henry Lehman/Massimo De Francovich: è con lui che si apre lo spettacolo. Lo troviamo sulla banchina del molo di New York appena sbarcato dall’Europa. Sarà lui a stabilirsi a sud e a chiamare poi a vivere con lui i due fratelli, Emanuel (Fabrizio Gifuni) e Mayer (Massimo Popolizio).
Inizieranno a comprare cotone all’ingrosso da una piantagione lì, Testatonda Deggoo (Martin Ilunga Chishimba) e di lì, resistendo alla guerra di secessione e facendo da mediatori fra le piantagioni del sud e gli industriali del nord, creeranno un impero economico come mediatori.
Henry muore presto, Mayer si sposa in Alabama, ma è la curiosità di Emanuel a portare la famiglia a New York.
Qui suo figlio Philip (Paolo Pierobon) porterà la famiglia dall’economia della produzione a quella degli investimenti.
Inizia il Novecento. E finisce la prima delle due parti.
Il secondo episodio è proprio la saga del secolo breve, che passa fra la grande crisi del ’29, le due guerre e la fine della dinastia, con Herbert (Roberto Zibetti) dedito alla politica più che all’economia, e Robert (Fausto Cabra) che passerà la mano, molto anziano, a due figure che, con la storia del cotone e delle piantagioni, hanno ben poco a che fare, Pete Peterson (Raffaele Esposito) e Lewis Glucksman (Denis Fasolo).
Saranno loro, con il loro sembiante da avvoltoi, a completare la trasformazione dell’impero economico in universo della speculazione. Un cambiamento, ci dice in realtà Stefano Massini, quasi un esito ineluttabile della dinamica sociale, prima ancora che economica, nelle sue evoluzioni più perverse.
Lo spettacolo infatti racconta di questa famiglia come specchio e incarnazione del tempo più che come artefice di un modello. Sicuramente i Lehman sono stati entrambe le cose, ma il testo, nella volontà di sospendere il giudizio morale, si ferma prima delle scene a tutti note degli scatoloni con i dipendenti che evacuano il palazzo, e si trasferisce, per il finale, in una sorta di paradiso, dove si svolge un ipotetico Consiglio di Amministrazione di famiglia, in cui gli uomini, seduti in cerchio, ricevono la telefonata con cui si annuncia loro il fallimento della storica ditta, il marchio, l’insegna gialla su sfondo nero della polverosa cittadina di Montgomery, Lehman Brothers.
E’ una storia al maschile, dove per pura delicatezza, ma senza una vera necessità di testo e vicenda, nel secondo tempo sbuca Francesca Ciocchetti a fare la moglie ora di Philip ora di Bob (più d’una in questo caso). Ma in fondo è figura ancillare, si limita a prendere un tè con la signora Goldman (Laila Maria Fernandez), o ad applaudire i comizi di Herbert.
Nel mezzo, quasi a rappresentare metafora del tutto, il personaggio dell’equilibrista, Solomon Paprinskij (Fabrizio Falco), che per cinquant’anni tenderà il suo filo davanti alla sede di Lehman Brothers e cadrà per la prima volta quando cadranno anche loro.
Cosa sceglie la regia di Luca Ronconi del testo di Massini, che è narrato con i personaggi che recitano se stessi in terza persona (“Henry si trova sulla banchina di…” dice de Francovich)?
Innanzitutto pare concettualmente separare la vicenda dei tre fratelli fondatori da quello che seguirà nel Novecento.
Ronconi sceglie di lavorare solo su attore e parola, spingendo ciascuno di loro (e l’operazione riesce alla perfezione nel primo dei due episodi) ad una recitazione estrema, che porta parola e gesto alla più grande compenetrazione possibile, attraverso enfasi che sviluppano ora ironia, ora satira, ora dramma.
La scrittura di Massini in questa parte è obiettivamente più ispirata: la vicenda dei tre crea quei giusti schemi di rimando e conflitto idonei a creare una partitura polifonica vivace, che scorre senza respiro per quasi tre ore nel silenzio più assoluto della sala, complici i grandi interpreti. La cosa continua anche con la figura di Philip, ben delineata e interpretata da Pierobon.
Il resto del testo, nell’evolversi della saga familiare dopo la crisi del ’29, prima ancora che della recita è invece meno ispirato, nella scrittura a maglie più larghe, e anche la regia cede il passo.
La storia si intreccia alla tradizione ebraica, che lega la gioventù all’irrequietezza e la vecchiaia alla sapienza, e così Ronconi sceglie attori più adulti per la prima parte e più giovani per la seconda, quasi a voler dire che i Lehman hanno perso per strada la loro sapienza antica per affidarsi alla gioia effimera della gioventù.
Così facendo, tuttavia, il regista ha segnato inesorabilmente una cesura anche generazionale fra gli interpreti, lasciando al magnifico quartetto De Francovich (alla riscossa su un testo non classico), Gifuni (eleganza pura), Popolizio (non lo vedevamo così ispirato da tempo), Pierobon (infallibile nelle mani di Ronconi), la parte dei leoni, in corrispondenza con la parte più strutturata del testo.
I giovani, chiamati all’arduo compito di mantenere in piedi il testo dove paradossalmente si fa più debole, ce la mettono tutta, ma onestamente l’ispirazione drammaturgico-registica e l’esperienza attorale non sono quelli della prima parte. E si vede.
Rimarranno i tre giovani a ballare un twist, l’unica musichetta sgangherata dell’intero spettacolo, segno di un’età e un’identità immatura.
Che dire? Nel complesso un lavoro onesto, affidato e centrato sull’attore, dove Ronconi decide le cadenze. E per quanto ci riguarda sono per gran parte additive rispetto alla meccanica della parola di Massini, la rendono più forte e godibile. La direzione dei grandi interpreti deve essere stato piacere puro per il maestro. Che immaginiamo abbia faticato invece sui giovani, ma tant’è.
Il testo è meno complesso e “più trama” rispetto agli ultimi con cui il regista si era confrontato, e questo aiuta sicuramente il pubblico a reggere con minor fatica il tempo, comunque sempre importante, dei suoi allestimenti.
Rivedrei e farei rivedere ancora e ancora il primo atto, come emblematica cornice della forma recitata del Ronconi dell’ultimo decennio, affidata ad alcuni dei suoi interpreti più fidati. L’orchestra giovane per ora è altra musica. Non se ne abbiano.
Quella di attore, che è un mestiere, è arte che si impara. E occorre tempo. Quindi nessuna bocciatura. Solo la grandissima occasione, per gli under 40 della compagnia, di rubare il mestiere a gente capace, con la parola, lo sguardo e il gesto di creare da ogni battuta un’emozione. Anche dove il testo racconta la semplice vicenda di tre fratelli che compravendono cotone.
Lehman Trilogy – Prima parte
Lehman Trilogy – Seconda parte
di Stefano Massini
regia Luca Ronconi
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci A.J.Weissbard
suono Hubert Westkemper
trucco e acconciature Aldo Signoretti
con (in ordine di apparizione):
Henry Lehman Massimo De Francovich
Emanuel Lehman Fabrizio Gifuni
Mayer Lehman Massimo Popolizio
Testatonda Deggoo Martin Ilunga Chishimba
Philip Lehman Paolo Pierobon
Solomon Paprinskij Fabrizio Falco
Davidson, Pete Peterson Raffaele Esposito
Archibald, Lewis Glucksman Denis Fasolo
Herbert Lehman Roberto Zibetti
Robert Lehman Fausto Cabra
Carrie Lauer, Ruth Lamar, Ruth Owen, Lee Anz Lynn Francesca Ciocchetti
Signora Goldman Laila Maria Fernandez
produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
prima parte: 2h 35′
seconda parte: 1h 55′
applausi del pubblico: 3′ 12”
Prima parte
Seconda parte
Visto a Milano, Piccolo Teatro, il 7 febbraio 2015