Tra Sacro e profano, per un teatro alla ricerca del Sé

Andrea Cosentino in Lourdes (photo: Eugenio Spagnol)
Andrea Cosentino in Lourdes (photo: Eugenio Spagnol)
Andrea Cosentino in Lourdes (photo: Eugenio Spagnol)

Lo seguiamo con passione da quattro edizioni, I Teatri del Sacro. Per cui ci siamo gettati di nuovo con entusiasmo nel turbinio dell’avventura del festival, che come consuetudine si è svolto nella bellissima cittadina di Lucca dall’8 al 14 giugno.

Cogliere il sacro, l’inesprimibile che si annida nella nostra fragile esistenza, è il massimo potere che il teatro possiede. Negli spettacoli che abbiamo visto a Lucca si è potuto ancora una volta riscontrare un dialogo franco ed interscambiabile tra credenti e non, con risultati talvolta sorprendenti, altre meno.

Cosa possono avere in comune, ad esempio, due personaggi assolutamente diversi tra loro come San Giuseppe da Copertino e Simone Weil, ossia un santo francescano e una filosofa di stampo marxista?
Lo abbiamo scoperto assistendo a due spettacoli diversi: la narrazione di Fabrizio Pugliese dedicata al santo di Copertino, e l’omaggio che César Brie ha dedicato alla Weil.

In “Per obbedienza” Fabrizio Pugliese ci racconta con grande commozione partecipativa, su testo di Francesco Niccolini e regia di Fabrizio Saccomanno, della vita terrena di Giuseppe da Copertino, che si svolge nel primo Seicento, illuminando con la sua presenza un’età dove “trionfano ricchezza e cupidigia da una parte e malattie gravi, infezioni, una giustizia ingiusta, una Chiesa onnipotente dall’altra”.
Giuseppe, nella sua santa idiozia, si innamora della Madonna e va in estasi con una facilità incredibile, volando e trasportando con sé quel corpo martoriato da digiuni e flagellazioni.

In “La volontà” scopriamo invece che, trecento anni dopo, un altro essere umano, per di più donna, Simone Weil, vola, sebbene in altro modo, trasportando anch’essa un corpo martoriato.
La troviamo in un ospedale inglese del Kent, luogo in cui César Brie immagina che venga accudita prima della morte da un infermiere italiano, Carlo Manfredi.
Catia Caramia interpreta l’anima di questa meravigliosa e fragile donna: operaia, sindacalista, insegnante, scrittrice, storica, poetessa, drammaturga, combattente, filosofa, contadina, in un colloquio con Brie che all’occorrenza si trasforma ora in narratore, ora in padre e in medico, permettendo salti spazio-temporali alla narrazione, che si nutre di pochissimi oggetti significanti e di una carrucola che, appunto, fa volare i due attori.

Vi è nello spettacolo un eccessivo impeto didascalico non sempre ben strutturato e la parte dedicata al saggio dell’Iliade scritto dalla Weil è troppo lunga rispetto al contesto, ma il personaggio che evoca entra diritto nel cuore, anche di chi non lo conosceva.

Ambedue i personaggi, Giuseppe da Copertino e Simone Weil diventando vivi in due modi assolutamente diversi, dimostrando l’inadeguatezza rispetto alle infinite possibilità che le nostre esistenze potrebbero esprimere.

Anche in “Lourdes”, tratto dall’omonimo romanzo d’esordio di Rosa Matteucci, il corpo è al centro della creazione.
Attraverso la forte presenza attorale ed autorale di un artista che apprezziamo da molto tempo come Andrea Cosentino e la musica suonata dal vivo, che sottolinea i momenti più intimamente espressivi di Danila Massimi per la regia di Luca Ricci, lo spettacolo dà vita a un grottesco pullulare di personaggi, ciascuno con le proprie aspettative e speranze, tutti in viaggio verso Lourdes, ognuno in attesa di un miracolo.
Il tutto viene visto dall’occhio giudicante di una volontaria alla ricerca di un’importante risposta. L’osservazione capziosa di tutto questo mondo sofferente viene demolita dallo spiazzante finale, in cui la luce di Dio investe la protagonista, ricordandone la propria tracotanza rispetto alle miserie del mondo.

D’impatto filosofico, a interrogare il pubblico su alcune delle domande più importanti che contraddistinguono la nostra esistenza – come la miseria del genere umano -, è il “De Revolutionibus”, del duo Carullo/Minasi, che, dopo aver affrontato in “T/Empio – critica della ragion giusta” l’Eutifrone di Platone, si immerge ora in due dialoghi leopardiani: “Il Copernico” e “Galantuomo e Mondo”, definiti rispettivamente dai due interpreti “operetta infelice per questo morale” e “operetta immorale per questo felice”.

I due dialoghi vengono espressi in una sorta di piccolo teatro del mondo in cui gli spettatori possono ritrovarsi, ascoltando le parole auliche ma ancora assolutamente contemporanee del poeta recanatese. Al centro vi è sempre l’uomo con le sue miserie e le sue possibilità.

Nel dialogo che avviene tra Copernico e Sua Eccellenza Sole (che stufo di girare intorno “ad un granellino di sabbia” si è posizionato finalmente nell’immensità dell’universo) l’uomo viene posto finalmente nella profondità della propria miseria. In quello tra Mondo e Galantuomo (in cui il primo avverte il secondo che ora, dopo aver sempre coltivato la virtù e frequentato la bottega della Natura e della Poesia, debba ora invece appigliarsi a “tutto il contrario di ciò che gli parrebbe naturale, compiendo ogni rovescio”) l’uomo diventa “penitente di ogni virtù”.
Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi continuano così in modo fecondo il loro percorso di stampo filosofico, raro nel teatro italiano.

Molti altri stimoli hanno attraversato il festival, dall’ancora in divenire visitazione che Roberto Rustioni fa del poema sacro indiano “Ramayana”, con in scena sette giovanissimi attori, alla impegnativa, ma ancora un po’ monocorde, trasposizione teatrale che Jacob Olesen e Amandio Pinheiro fanno di “Una Solitudine troppo rumorosa” di Bohumil Hrabal, fino al “Prego” di Giovanna Mori, di cui non comprendiamo ancora bene tutti i (con)fini.

La partita in gran parte persa è stata quella degli spettacoli che volevano affrontare il tema del sacro attraverso il comico, come “Caino Royale” di Pem-Habitat Teatrali e “Delirium Betlem” di Alberto Salvi che, a nostro avviso, non sono riusciti a coniugare sino in fondo e in modo fervido il riso con le tematiche importanti che intendevano trattare (le ragioni del male e la missione dei Re Magi) sepolte da un susseguirsi di gag e canzoni in molti casi assai forvianti.

Il comico in chiave fortemente corrosiva ci ha invece convinto nell’ultimo lavoro di Punta Corsara “Io mia moglie e il miracolo”, in cui Gianni Vastarella imbastisce una sorta di apologo surreale di forte valenza espressiva sulla famiglia nel quale coinvolge tutta la compagnia.

La scena si popola pian piano di personaggi surreali, mossi da ragioni imperscrutabili, avvolti in un’atmosfera rarefatta, ben diversa da quella partenopea che contraddistingueva i lavori precedenti della compagnia. A poco a poco, però, le ragioni oscure di ognuno dei personaggi si fanno ben chiare, sino al lancinante finale, dove l’unico a rimetterci è proprio colui che possiede in sé la santità, troppo solo in un mondo terribile che non crede più che i miracoli siano possibili.

Tra le presenze di gruppi non professionisti, che sono parte integrante del festival, con un apposito premio dedicato a Mario Apollonio, vogliamo ricordare “Pe’ Devozione”, esito emozionante del laboratorio con 17 donne dai 34 ai 78 anni di Forcella tenuto da Marina Rippa e Alessandra Asuni, che raccoglie racconti, gesti e storie sui riti quotidiani relativi al proprio vivere sacro.
Così come “A ritrovar le storie” del Teatro dell’Orsa, performance conclusiva tenuta dal gruppo emiliano dopo un breve ma intenso laboratorio con un gruppo di giovani nigeriani richiedenti asilo, accolti nella casa del GVAI a Lucca.

Seppure forse non tra le edizioni più rimarchevoli nel suo insieme, usciamo da quest’edizione di Teatri del Sacro avendo negli occhi la felicità espressa sul palco da giovani uomini che il teatro è riuscito, almeno per una volta, a rendere protagonisti.

In conclusione la nostra playlist del festival, non ancora completa, con gli interventi di Fabrizio Pugliese, Catia Caramia, Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, Roberto Rustioni, Gianni Vastarella. Buona visione!

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