Ha davvero qualcosa da dirci il nostro inconscio?
Da anni il festival Vie a Modena (l’undicesima edizione si conclude domani) pare, ma forse è l’arte a farlo, sottilmente agitare lo spettro di quello che sfugge al razionale e si insinua nel sensibile individuale. L’edizione di quest’anno, poi, è un’edizione che alterna forze vitali e visioni apocalittiche, amore e morte. E lo fa con grandissimi nomi.
Ma in fondo il tema non è nemmeno quello dell’inconscio, quanto quello della doppiezza, una doppiezza che può essere soggettivo-psicologica o sociale.
E’ l’essere umano a non riuscire, a non poter essere singolo e univoco, ma multiplo e allo stesso tempo evanescente, calviniano nel senso di Calvino, rampante e inesistente, e insieme concreto, oscuro e buio.
E di questo scenario il festival rende uno spaccato pulsante, attraverso le sue visioni di punta, dalla Marin a Rambert, da Sieni a Bolze, fino a Castellucci con “Go down, Moses” in scena ancora stasera.
E il teatro in fondo è il pericoloso gioco di rincorrersi, per poi trovarsi persi in un posto sconosciuto con davanti uno specchio, crudelmente non deformante, e che ti dice proprio per bene come sei fatto.
Come altro leggere, ad esempio, il lavoro di Maguy Marin se non come una atroce visione di una società (la nostra) che canta e balla ma che nasconde vizi e violenze in un retro palco di cui la coreografa “pasionaria” regala la devastante visione, oppure il dittico di Bolze che, chiuso nella sua abitazione, racconta sé e il suo doppio in due spettacoli in cui la cifra dell’equilibrismo appare un modo elegante per raccontare le peripezie del contemporaneo, della vita vissuta, chiusa nel silenzio della nostra casa.
Proprio quando l’essere umano diventa sociale la voce pare confondersi in un assordante e sovrastante caos che la fagocita: colloqui di lavoro, prove di ingresso in società, tentativi di affermazione di sé.
Che fotogrammi ci hanno colpito l’immaginario nel primo week end?
Beh’ certamente la danza popolare sulla base techno, l’allegro sirtaki a ritmo di tunztunz dei danzatori della Marin eseguito in bilico su pedane di metallo inclinate, che viene intervallato da visioni di violenza fisica e psicologica, uomini incappucciati, violenze ripetute e di gruppo nelle sagrestie della fede, cascate di soldini a far naufragare l’umanità messa in posa alla deriva, manco fosse una foto di LaChapelle, o l’ebbrezza di un michelangiolesco Noè del nostro tempo.
Un’ora assordante, con una musica praticamente monocorde e visioni diversissime fra loro, di anime del purgatorio ora in allegro gioco ora in cupissima violenza delle une sulle altre. Ma altro che anime, è la realtà del nostro tempo.
Assistiamo a tutto con quella distanza che vorremmo segnare rispetto a quello che la Marin ci mette davanti agli occhi. A tratti viene da chiedersi perché? Poi alla fine si torna a casa con il pugno in faccia e la memoria di queste immagini che non evapora.
Nella memoria restano anche le movenze condensate nei due lavori con cui Mathurin Bolze torna a Vie dopo “Ali”. “Fenêtres” trae ispirazione dal “Barone Rampante” di Italo Calvino, ma lo fa seguire il giorno dopo dalla prima assoluta di “Barons perchés” (baroni rampanti), che sviluppa e approfondisce il tema di “Fenêtres” e che vede in scena lo stesso Bolze.
Nel primo l’interprete Karim Messaoudi realizza una drammaturgia acrobatica utilizzando un tappeto elastico che abita il centro di una scena che ricostruisce l’interno di una casetta.
Stessa stanza, stessa casetta il giorno dopo. Persino stesse movenze. In scena Messaoudi e Bolze.
La natura di dittico si condensa istantaneamente davanti agli occhi dello spettatore. E’ come se il secondo creasse la filosofia del primo, lo cristallizzasse nel ragionamento sull’io sdoppiato, sulla proiezione di sé che si affoga e si salva.
Bellissima l’immagine dei due performer che, giocando sulla loro somiglianza fisica, realizzano una sorta di catena di Escher in cui si tuffano nella disperazione del vivere in un’ininterrotta catena, e mentre affogano si tirano su per i piedi entrando e uscendo da due botole vicine.
Il secondo atto è la declinazione esistenziale del primo, più giocoso e leggero. Ma il secondo non è pesante. E’ solo bello in un altro modo: il primo un assolo, il secondo un duo (possono vederlo in questi giorni i milanesi al Franco Parenti).
Entrambe le proposte hanno momenti lirici notevoli. Come fossero un’offerta musicale di Bach, dove il tema viene suonato in così tanti modi che la ripetizione diventa pretesto e si inizia a leggere sullo sfondo qualcosa d’altro, che pian piano vien fuori.
E “Répétition” è anche il titolo di un altro degli spettacoli clou di questa edizione del festival: lo firma Pascal Rambert con cui ERT ha avviato un discorso da alcuni anni, e che ora presenta a Vie “Répétition” dopo il debutto al parigino Festival d’Automne.
protagonisti i due interpreti francesi del suo precedente grande successo “Clôture de l’amour”, Audrey Bonnet e Stanislas Nordey, affiancati dalla cinestar Emmanuelle Béart e Denis Podalydès.
Vocazionalmente uno spettacolo di due ore e quindici senza intervallo composto da quattro monologhi successivi di mezz’ora ciascuno, recitati in uno spazio scenico pressoché vuoto, è qualcosa da cui tenersi a debita distanza. Invece questa prova in cui testo, regia e coreografia portano tutti la firma di Pascal Rambert è uno spettacolo di qualità sopraffina, sia per le quattro pregevoli interpretazioni e sia per il ragionamento in sé su persona e personaggio, sul teatro e il suo doppio, dove i protagonisti portano i nomi dei loro interpreti, come Ritter, Dene e Voss.
E anche qui in fondo ci sono fobie, implosioni relazionali, non affidate al dialogo ma a confessioni e vicende ambientate in un vuoto quasi pirandelliano, governato dalle luci di Yves Godin, che muovono variazioni tonali sulla vita nella nostra società.
Siamo falliti, ingordi, ignoranti, inutili? Come verrà ricordato questo tempo, in cui ci abbuffiamo consapevoli della catastrofe? “Ma avrà senso tanto amore, tanto sesso?” – si chiede uno dei protagonisti ad un certo punto “In fondo ce lo saremo meritato”, si risponde…
Confidenze, supposizioni, aggressioni, verità e finzioni, si ma soprattutto il grande gioco del teatro che vince contro se stesso quando ha i suoi ingredienti al massimo della qualità. E le due ore passano, consumiamo gli occhi sui sovratitoli, mentre i monologhi si susseguono e gli altri tre interpreti di volta in volta muti abitano lo spazio con gestualità quasi minima.
Vorremmo annotare tantissime delle frasi uscite dalla penna di Rambert e guardiamo alla fine i corpi stesi per terra, come in un finale di un Amleto qualsiasi (e Rambert cita l’ispirazione in modo direttissimo), e così alle undici e un quarto di sera uscendo, ci diciamo sconsolati che questo maledetto teatro ci ha fregati di nuovo.
E ha vinto lui, con la stessa bastardissima minestra che prepara da tremila anni a questa parte, riportandoci nel sottoscala dell’inconfessabile, di cui sempre ci garantiamo la chiusura ermetica quando usciamo la mattina di casa.