Giacomo Agosti è attore, regista e, dal 1989, insegnante all’Accademia di Brera. Dal 2008, con il progetto “Uno sguardo sulla lirica”, si propone di mostrare al pubblico l’opera da un punto di vista nuovo: semplificata, privata del tradizionale impianto monumentale, spostata dai teatri classici a spazi non tradizionali, ridisegnata e adattata al corpo, ai gesti, alla voce dei cantanti con un profondo lavoro non solo sulla voce ma anche sull’espressività.
Lo incontro sotto il sole tiepido di una domenica di marzo, nella splendida cornice dell’antico refettorio dell’Accademia di Brera, dopo la chiusura della sua ultima prova di regia: l’adattamento dell’opera Wozzeck di Berg. Due pianoforti, una lunga passerella di legno massiccio e, in scena, una spiazzante e meravigliosa naturalezza di corpi e voci che raccontano un dramma potentissimo.
Questa è la caratteristica del tuo lavoro sull’opera, che nasce con il progetto “Uno sguardo sulla lirica”. Parlaci di questo nuovo sguardo.
Ho conosciuto la lirica, tanti anni fa, come un ascolto di registrazioni. Fantasticavo sui corpi che non vedevo e forse mi sono creato un primo spazio nella mente. E’ un po’ come quando, da bambino, si vogliono impersonare in una volta sola “tutti i personaggi” di una storia. Per questo, più che di sguardo, vorrei parlare di lirica ad occhi chiusi.
Come nasce il tuo rapporto con la musica, con il canto?
Ascoltando e ripetendo. Una specie di singulto a bocca chiusa infinito, che spesso ha provocato fastidi e proteste. Tenendola dentro la musica si adatta, cambia ritmo. Succede lo stesso con la danza: guardo e rifaccio quello che ho visto fare.
Come riesci a trasformare i tuoi cantanti performer così da farli diventare puro suono, corpo e interpretazione, permettendoci di dimenticare che stiamo assistendo a un dramma in lingua tedesca?
Applico a loro qualcosa che ho derivato dalle mie esperienze. Se la musica mi ha aiutato a conoscermi, a muovermi dentro di me, penso che lo stesso sia successo dentro di loro. Un cantante ha un rapporto molto delicato col suo corpo, conosce le corde vocali. Questo rappresenta un punto di partenza. Io cerco di costituire uno specchio per loro stessi, per la storia che è scritta nel loro corpo.
E’ un lavoro di grande disciplina e ascolto di sé e dell’altro. Che rapporto hai con i cantanti? Come si sviluppano i tuoi spettacoli di lirica-teatro?
C’è una prima fase rappresentata dalla scelta dei cantanti. Ho sviluppato un’intesa particolare con Emanuele De Filippis, un musicista che viene da una storia complessa (è stato batterista in complessi pop e accompagna al pianoforte grandi cantanti). Non sappiamo chi “interpreterà il fantasma”, chi darà corpo alla voce interna: questo è un momento molto stimolante, che può fare paura perché mette a contatto con la mancanza di contorni precisi. Poi inizia il tempo della ricerca.
Che valore e che significato riveste, per te, lo spazio in cui allestisci e lavori?
In questo momento sto creando degli spettacoli in vista di luoghi specifici: il Rigoletto per il capannone dello Spazio Frigia, il Wozzeck per l’ex refettorio di Brera, la Butterfly per il palcoscenico del Binario 7 di Monza, il Trovatore per la grotta di un parco della bergamasca. L’idea nasce dalla visione e dalla frequentazione di questi luoghi, si incontra con dei ricordi e produce degli stimoli. Ricostruisco, con l’aiuto dei miei assistenti (Alice Bisio in particolare), questi spazi e le loro misure nella sala di Niguarda dove lavoro: poi li affido ai cantanti. Non escludo, in futuro, di provare un esperimento diverso: fare generare lo spazio direttamente dai cantanti/attori e poi proporlo all’esterno. Come se il piano d’appoggio fosse l’ombelico e Tosca nascesse da lì.
I tuoi lavori sono sempre generosi; regali agli spettatori una grande parte di te. Cosa succede alla fine di ogni spettacolo? Come ti senti?
Durante lo spettacolo tengo il respiro insieme al cantante, penso di sostenerlo. Mi piace entrare in scena, sentire che entro “da qualche parte”, che attraverso un luogo. E’ un po’ come se entrassi dentro quel vecchio registratore da cui sono partito o attraversassi una porta che era chiusa.
Riusciresti a definire il tuo percorso artistico negli anni, raccontandoci quali sono stati gli sviluppi della tua ricerca?
Ci sono stati quattro momenti che considero importanti. Prima che inventassero l’home video, guardavo le foto dei film che non potevo vedere. Quando ero in collegio in Toscana sentivo le parole pronunciate con un accento diverso rispetto a Milano e Roma, le due città dove sono cresciuto.
Poi c’è stata la scoperta della condivisione, della messa in comune del corpo con gli altri, dello sviluppo della fantasia nell’intimità. Per ultima la vita sull’acqua: quattro mesi in solitudine su una nave inglese che ha circumnavigato la terra.
La prossima tappa del percorso “Uno sguardo sulla lirica” sarà una “Scheggia di Butterfly”, in scena domani, 15 aprile, alle 19 e alle 21 all’interno di “Voice in itinere”, una mostra di dodici artisti giapponesi organizzata dall’atelier Uroburo alla Fonderia Napoleonica di Milano per Fuorisalone. Parlaci della tua Butterfly.
Lo spettacolo debutterà al Binario 7 di Monza il 28 maggio, ma le prove aperte sono cominciate al Pim lo scorso settembre. Poi abbiamo fatto le “Schegge”, performance molto brevi in alcune gallerie d’arte orientale e ora alla Fonderia Napoleonica. Butterfly è all’incrocio tra l’autonomia di un grande cartone animato e l’evocazione di un altro mondo. Le mie schegge sono due marinai, una ragazza e un gatto. Si dice che la prima di Madama Butterfly, alla Scala nel 1904, sia stata rovinata da molte cose: preconcetti della critica, malevolenza del pubblico a comando etc. La mia bisnonna, che ne fu spettatrice, mi raccontava che uno dei momenti più comici della serata era stato il passaggio di un gatto in scena. A distanza di 106 anni mi piace rivivere qualcosa del sorriso della mia bisnonna. Immaginare che la musica e il canto di Puccini siano talmente belli da contenere anche la parodia di loro stessi. Affidandola, appunto, a due marinai e a un gatto.
Regista, perfomer, insegnante, esperto di musica: tante definizioni ma nessuna che ti appartenga totalmente. Riesci a darne una di te?
No, nessuna.