A Aubervilliers, alle porte di Parigi, il Théâtre de La Commune è tra le scene più significative della drammaturgia contemporanea della capitale. Situato nella periferia nord della città, è un teatro che sembra non assomigliare al suo quartiere. Per arrivarci, dalla stazione della metro, restano dieci minuti a piedi lungo Avenue de la République, tra macellerie halal, specialità orientali, panetterie turche, alimentari esotici.
Il teatro-cinema La Commune si nasconde in una perpendicolare a destra, come un oggetto non identificato, fuori dal suo contesto. E, tuttavia, non è così. Almeno da cinquant’anni, dal lontano 1965 in cui il teatro aprì le sue porte, La Commune, forse in virtù del suo nome, si propone di essere un teatro “pour tous”, per tutti, di tutti, con atelier, dibattiti, agevolazioni per i più giovani, un luogo vivo, di fiducia, un’intenzione che si ritrova nelle parole di Marie-José Malis, la nuova direttrice.
È sua l’idea di una chiamata alle armi per quegli artisti, tecnici, spettatori, e semplici cittadini, che il fine settimana si ritrovano nel foyer per decidere delle sorti del teatro e occupano il proprio tempo per indagare sulle vite degli altri. “Non per un desiderio di sociologia fine a se stessa”, spiega, “ma per scoprire che non sappiamo nulla delle esistenze altrui e che ogni teatro dovrebbe partire da qui”.
Risponde probabilmente a questa esigenza di analisi, alla necessità di restituire al teatro il ruolo di agorà pubblica, luogo di confronto e di dialogo, il ciclo sull’economia mondiale che ha visto alternarsi in scena a La Commune tre spettacoli di approfondimento sui movimenti dell’economia globalizzata, sul capitalismo contemporaneo, dalle condizioni di lavoro degli operai tessili in Asia all’umiliante competitività del mondo occidentale, ma non solo.
L’economia è il punto di partenza per individuare un ruolo altro del teatro in tempi di crisi, nuove economie artistiche e alternative culturali autosufficienti. Un’iniziativa molto partecipata, da un pubblico eterogeneo, di studenti, abbonati, cittadini di Aubervilliers e avventori della domenica, dove alle pièce sono seguiti incontri con le compagnie, con filosofi, sociologi ed economisti.
Ospite della mini-rassegna, dopo il debutto al Teatro della Tosse di Genova, è Fausto Paravidino, con la sua nuova produzione, “La boucherie de Job” (Il Macello di Giobbe), testo scritto nel 2014, al termine della sua esperienza di tre anni al Teatro Valle di Roma.
Occupato nel 2011 per sfuggire alla chiusura (prima di esser poi sgomberato nell’agosto 2014 e ora vuoto), il teatro romano è stato una sorta di fucina, non solo di creatività, ma anche di idee e stratagemmi su come utilizzare la cultura in tempi di spending review, come dare vita a una democrazia alternativa basata sulla produzione artistica, come usare il teatro e le arti performative contro l’inevitabile sacrificio di lacrime e sangue a cui il governo aveva chiamato il popolo italiano.
“Il Teatro Valle è stato una sorta di laboratorio dove ho sentito l’urgenza di sperimentare nuove modalità di produzione dell’arte drammatica” racconta Paravidino. Alla nascita dello spettacolo hanno infatti collaborato decine di tecnici, maestranze, artisti, tutti artefici della creazione artistica, in una sorta di pièce collettiva e partecipata, essa stessa modello di una nuova democrazia teatrale.
Da qui nasce “Il macello di Giobbe”, favola contemporanea in cui Giobbe, interpretato magistralmente da Filippo Dini, come nella Bibbia è un uomo onesto, forse troppo umano, che subisce la sconfitta e l’ingiustizia. La sua macelleria, infatti, non regge il confronto con i ritmi del capitalismo moderno. Il ritorno del figliol prodigo, educato nelle scuole del liberalismo contemporaneo degli Stati Uniti, infierisce sulla famiglia. Il figlio scommette sul fallimento dell’impresa del padre, risponde alla chiamata di quel Dio dell’Avvenire che è il profitto, il beneficio a breve termine, il guadagno senza ripensamenti o scrupoli.
Dall’altro lato, il Dio stanco, quello di Giobbe, si dichiara perdente e lo stesso Giobbe non ce la fa a risollevare le sorti della famiglia, si lascia andare, perde la moglie adorata, licenzia il suo garzone di fiducia, finisce per la strada. Va in scena il realizzarsi del diritto divino, senza possibilità d’appello.
Come la giustizia di Dio, l’economia capitalista è inarrestabile, segue il suo corso, come un sistema naturale e necessario. A Giobbe, che cerca di raddrizzare l’impresa di famiglia con il solo aiuto del buon senso e della misericordia, s’oppone il figlio, interpretato da un sempreverde Paravidino, sensibile alle logiche del profitto, al canto delle sirene della finanza spregiudicata.
“Ho scelto il Libro di Giobbe perché è una delle fonti della nostra cultura occidentale – spiega Paravidino in un’intervista – Il testo dove l’uomo si rimette alla fiducia di Dio; sono partito da qui per esaminare gli effetti della depressione economica contemporanea, non solo sulla finanza, ma sulla cultura, sulla solidarietà sociale, sui rapporti umani, sull’intimità, oggi che le questioni di soldi ci mettono spesso di fronte alla nostra moralità”. Una riflessione maturata con lo studio delle teorie e delle proposte di Andrea Baranes di Banca Etica, le metafore di Marco Bersani, storico attivista di Attac Italia, promotore di una nuova finanza più umana.
Il ricorso al mito, alla parabola, al racconto biblico, è necessario per demistificare il liberalismo, quello che Paravidino chiama la religione dell’egoismo. Rifarsi alle origini del Vecchio Testamento per illustrare il contemporaneo, ma soprattutto per spogliarlo della sua presunta razionalità.
Reduce da un approccio più realista al teatro, qui Paravidino sceglie le forme dell’epica per mettere in scena una sorta di parabola, un linguaggio più allegorico, attraverso l’uso della metafora, una storia che permetta l’identificazione restando protetti dalla distanza temporale. Da qui l’abbondanza dei riferimenti biblici sul palco: le tuniche di Cristo, il sacrificio, il simbolo del capro espiatorio, in un gioco di rimandi al Libro di Giobbe, tra ingenuità e cinismo.
La stessa contrapposizione che si rivela nelle scelte scenografiche: sulla testa di Giobbe, protagonista suo malgrado, animo naif, pende una carcassa sanguinolenta, il suo habitat è fatto di coltellacci e lastre di marmo, come tragico memento della morte. E ancora, al centro della scena, divisa in tre parti, ci sono i colori caldi della cucina di casa, ai due lati le fredde sfumature della macelleria e della banca.
Gli stessi costumi, le maschere, sembrano voler fare dei personaggi delle marionette da Commedia dell’Arte, dei tipi facilmente individuabili: il buono, il cattivo, la lussuriosa, la madre di famiglia, il banchiere senza scrupoli. Un artificio che forse poteva essere sfruttato ancora di più, approfondito, ma offre non pochi intermezzi fantasiosi, scene da musical, paillettes e lustrini, in uno studiato e ritmico alternarsi di crudeltà e spensieratezza, cinismo e calda atmosfera familiare, dove a tenere le fila della storia sono i due clown, menestrelli inquietanti, come due voci fuori campo, che ruotano intorno alla macelleria, prendendo le parti ora di uno ora dell’altro, puntando al solo profitto, una sorta di satiri che anticipano le mosse dei personaggi, ne rispecchiano la paura, l’errore, la meschinità, la bassezza umana.
Come in una tragedia classica, alla fine nessuno ne esce vincitore. E nessuno osa tirarne fuori una morale, trasmettere un messaggio, un insegnamento. Non resta che immaginarsi nello sguardo di Giobbe, gli occhi al cielo, sussurrare un ultimo, insperato “Che bello!”, prima del sipario finale.
La Boucherie de Job
testo e regia: Fausto Paravidino
assistenti alla regia: Maria Teresa Berardelli, Camilla Brison, Camila Chiozza, Anna Felicia Nardandrea
costumi: Sandra Cardini, Annalucia Cardillo, Stefano Ciammitti
maschere: Stefano Ciammitti
coreografie: Giovanna Velardi
tecnici del suono: Vincenzo Schiavo, Daniele Natali
luci: Pasquale Mari
con Filippo Dini, Monica Samass, Barbara Ronchi, Fausto Paravidino, Emmanuele Aita, Iris Fusetti, Aram Kia, Federico Brugnone, L’infirmière, Ippolita Baldini
Visto a Parigi, Théâtre de La Commune / Centre dramatique national, il 16 gennaio 2016