Una tazza di mare in tempesta di Roberto Abbiati. Quando il teatro fa una splendida figura

Roberto Abbiati
Roberto Abbiati
Roberto Abbiati (photo: robertoabbiati.it)

In un freddo pomeriggio di novembre è possibile rifugiarsi dalla pioggia al Castello Pasquini, dove si è svolto fino a domenica scorsa il Festival Armunia Inequilibrio 2010. Ultimo anno della luminosa gestione di Massimo Paganelli. Un’era che si chiude, un’altra che se ne apre.
Stavolta i piedi sono completamente zuppi di quella che sembra essere una tempesta perfetta, che ci coglie di sorpresa mentre percorriamo la pineta, tornando dall’ultimo caffè prima di imbarcarci sulla nave degli spettacoli serali.
Decidi qui che questa introduzione e questo tono sono necessari, se vuoi rendere un’idea della condizione in cui eri la volta che entraste di soppiatto alla replica delle 16,30 di “Una tazza di mare in tempesta” di Roberto Abbiati.

Non è uno spettacolo. Presentato come “una piccola installazione, una piccola performance”, è in verità molto molto di più. È un viaggio (per un massimo di 15 spettatori a replica). Quello di Ismaele, giovane protagonista del “Moby Dick” di Melville, che s’imbarca su una baleniera solo perché vuole conoscere il mondo e la sua “parte fatta d’acqua”. Ma anche il viaggio di chi, da tempo ormai, cerca di localizzare dove stia di casa il teatro, quando per teatro intendiamo quell’incantesimo che ti rapisce a un tratto il cuore e te lo cambia per sempre.

Non si può non essere poetici, se si vuole restituire anche solo alla lontana il senso di questo lavoro, che di poesia vive, di immagini, di sintesi. D’istinto che reagisce e che disvela, di meraviglia, di schizzi di fantasia che somigliano a quelli, appunto, del mare in tempesta. Chiunque abbia mai avuto occasione di aprire “Moby Dick” e leggerne qualche pagina, potrà confermare di aver sentito in sottofondo il suono costante delle onde in lento andare, di aver annusato tra le righe l’odore stantio delle assi di legno marce, il colore livido di una cabina in cui la luce a olio viene e va al ritmo dell’oscillare della nave. Quando leggi quel libro, sei sul Pequod e da nessun’altra parte.

Allo stesso modo, questo è un viaggio in cui è impossibile perdersi, la direzione è una.
Abbiati ci raccoglie in una sala, il silenzio prima lo impone poi lo consiglia, dice che serve “all’attore, ma anche allo spettatore” per concentrarsi. Il silenzio con cui l’attore ci guida nel suo mondo è esattamente la chiave che ci terrà lì per il tempo stabilito. Per diciassette minuti netti stiamo chiusi in una baracca di legno, prendiamo posto su sgabelli che non vanno spostati, ché sono “nella posizione giusta”. Le pareti e il soffitto saranno lo spazio; la presenza di Abbiati la musica visiva che lo abiterà. Il ritmo lo stabilisce lui, sua è la scelta delle parole, delle pause, dei toni che non cambiano, degli occhi che ci guardano negli occhi. Noi non potremmo far altro, ché siamo impegnati a far muovere la nave, facendo attenzione che un’onda di troppo non ci butti in mare. La nostra presenza è lì a costituire il viaggio. Siamo qui per vedere quel mondo d’acqua e conoscere i suoi personaggi e i suoi miti.

Ruotiamo sugli sgabelli per seguire la storia, che prende vita dall’animazione di oggetti messi lì ad evocare un mondo intero: tre grucce con stracci appesi saranno le vele della nave, un gomitolo di fil di ferro allungato lo scheletro della balena, un calzascarpe di legno e una gamba di tavolino il capitano Achab. Abbiati compare da fessure nel muro come un quadro parlante, affiora dai cassetti di una credenza, irrompe dalla porta avvolto in una cerata fradicia gocciolando a terra quella che sai essere l’acqua dell’oceano, nelle cui profondità un gorgo scuro trascinerà tutto e tutti. Tranne uno. Ismaele. Cioè noi.
In queste tre lettere c’è forse la chiave di tutta questa esperienza. Per la prima volta dopo tanto tempo qualcuno ci assegna davvero un ruolo. Ci sediamo a formare la platea, dando al teatro la caratteristica che lo rende diverso da qualsiasi altra arte, e insieme a un posto ci viene consegnato un senso. Non si tratta di uno spettacolo interattivo. Non dobbiamo far altro che assistere, guardare. Ma abbiamo in dono una cosa fondamentale: accorgerci della nostra stessa presenza. Forse il vero teatro è quello che restituisce agli spettatori un pronome personale. Noi.

Mentre lo spettacolo prende vita intorno a noi, noi stiamo lì a sentirci vivi, a distinguere il nostro compito: quello di offrire le orecchie a un suono, gli occhi a una visione. Siamo usati come strumento per creare qualcosa. Lo spettacolo sono le nostre espressioni, il cigolio degli sgabelli mentre ci spostiamo, il profilo di qualcuno tagliato dalla luce, il sorriso di un altro. La vista di una storia che ci accarezza di sguardo in sguardo, installando il pubblico come un elemento in più, il punto fondamentale che chiude la frase.

UNA TAZZA DI MARE IN TEMPESTA
armunia e benvenuti srl
con: Roberto Abbiati e Luca Salata e Alessandro Calabrese
musiche e registrazioni a cura di Fabio Besana
scenografie costruite nei laboratori di scenotecnica di Armunia
durata: 16′
applausi del pubblico: 1′

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