Come siamo buoni, noi. La brutta storia sul razzismo di Celestini

Ascanio Celestini
Ascanio Celestini
Ascanio Celestini, Roma novembre 2010 (photo: Maila Iacovelli – Fabio Zayed/Spot the Difference)

L’Itc Teatro di San Lazzaro di Savena – hinterland bolognese – si è trasferito per una sera in centro città. L’occasione? Ospitare lo spettacolo – fortemente voluto dall’Arci – “Il razzismo è una brutta storia” di Ascanio Celestini, invitando al contempo i bolognesi a ri-abitare il Teatro Duse, chiuso ormai da mesi dopo la soppressione dell’Eti come ente inutile.

La serata si apre con un gruppo di studenti che, dal palco, specifica le ragioni della protesta in atto contro le decisioni governative in merito all’istruzione. Dopo l’intervento, gli studenti ringraziano per lo spazio concesso e tornano ai loro posti.
Inizia così lo spettacolo di Ascanio Celestini, di cui va menzionato il recente successo cinematografico ottenuto con il lungometraggio “La pecora nera”, riuscito esordio di cui proprio a Bologna, qualche mese fa, era stata presentata l’anteprima nazionale.

Lo spettacolo in scena al Duse tratta dell’Italia di oggi in merito ai temi della diversità, dell’esclusione sociale e del pregiudizio, esposti come sempre in chiave ironico-istrionica, quale è lo stile dell’attore-affabulatore.
Bene. L’Italia di oggi, su cui tanto si dice, fa però sì che di questo spettacolo se ne possa parlare solo a metà. La ragione è duplice: da un lato c’è la difficoltà di trattare tali temi senza fare appello ai sentimenti più malsani e scontati (e questo rischio Celestini forse per metà lo corre); dall’altro c’è il concreto fatto che ‘l’Italia di oggi’ ha permesso di vedere effettivamente solo una parte dello spettacolo, perdendo l’intero inizio.
Questo secondo aspetto, al di là della comprensibile irritazione di chi scrive, non è un semplice dato biografico ininfluente rispetto alla materia di cui si sta trattando.
Un velo di neve, un guasto sulla linea ferroviaria, e un centinaio di persone rimangono per oltre tre ore su un regionale che doveva percorrere solo 60 km. Disguidi delle regie ferrovie a parte, è questa una questione quasi parabolica del Paese oggi. La cultura è lontana, mediata da mezzi che sono in gran parte fuori dal controllo di chi ne fruisce. I buoni intenti, le buone pratiche, la nobiltà di parlare di certe cose restano come disgiunti dalla realtà. Ha ragione Majorino quando dice che ormai la parola realtà non basta a descrivere il miasma di cose/fatti/persone/linguaggi con cui abbiamo a che fare e con cui, anche, dobbiamo lottare. Di fatto, vivere oggi in un paese occidentale pieno di contraddizioni rende qualunque esperienza ambivalente, esposta al rischio e di difficile lettura.

Ma torniamo e restiamo dentro la sala del Duse. Una volta raggiunto (finalmente) il teatro eccoci pronti a godere di quel che rimane.
I continui applausi a scena aperta indicano da subito una temperatura alta, come se si fosse effettivamente in uno spazio in cui tirare un sospiro di sollievo. Dal loggione molte teste si sporgono, si sentono risate e commenti emergere dagli eleganti divani rossi di uno dei teatri più amati dalla città. Siamo, questo è percepibile, dentro qualcosa di vivo – e scusate se è poco.
Da molto il Duse non era così gremito ed entusiasta per un monologo teatrale. E allora può essere preso per vero il fatto che, come si ama dire ultimamente, “la gente ha voglia di cultura”.

Nel lavoro proposto da Celestini si ripropone una questione emersa anche in altri suoi spettacoli, con cui “Il razzismo è una brutta storia” entra in relazione nel senso della continuità.
Data la sciatteria con cui vengono trattate pubblicamente molte questioni socialmente pregnanti, la trasfigurazione narrativa e il mascheramento operato da alcuni tra i più amati artisti della nostra scena è qualcosa di cui essere grati. Prendersela coi froci e coi negri fingendo che sia vero mentre si è su un palco, forse può essere uno specchio distorcente per chi finge di non prendersela davvero con le diversità e poi, invece, agisce in maniera opposta. Il ribaltamento del comico – spruzzato qua e là da incursioni più serie e quasi ammonenti – è da sempre un modo per restituirci qualcosa su noi stessi e sul nostro mondo, fertile di possibili scoperte.
Questo è, ad avviso di chi scrive, il più grande merito di chi effettua tali operazioni, da Dario Fo a Celestini. Il rischio, invece, è quello di scadere a tratti nel moralismo, o nell’autocompiacimento (del pubblico, più che dell’artista): a chi stiamo parlando? Probabilmente, a quelli che a sentir dire ‘frocio’ si scandalizzano già. L’idea di Celestini di tirare in ballo i liberali più che gli apertamente razzisti è giusta nel suo impianto. Così come criticare l’immobilismo delle sinistre, dal ’48 in una sala d’aspetto per tirare la bomba in parlamento. Ma forse ci si potrebbe spingere ancora oltre, e proprio per il fatto che il nostro presente è molto più complesso di quel che sembra. Che certe cose le sappiamo ma, nonostante questo, non agiamo di conseguenza.

Se l’artista si fa carico della delega di scuotere le coscienze e di risvegliare anche quella di classe, è necessario allora che si faccia portatore di una vera provocazione, lasciandoci attoniti all’uscita, turbati, malmessi. Non c’è nulla di consolatorio nella provocazione, nello scandalo, nella vera crisi. L’invito finale a sostenere Emergency non deve farci sentire migliori, più buoni, dalla parte giusta. Gli studenti lo devono occupare un teatro che viene chiuso perché ‘inutile’. I cittadini devono disobbedire se le università, i contratti, i treni non funzionano più.
E questo non deve dircelo un attore. Da lui ci si aspetta che la rivoluzione sia del tutto, fino in fondo, radicalmente, artistica.
Il nostro panorama culturale sarebbe effettivamente pronto per accogliere una rivoluzione di questo tipo? Al momento non possiamo che dare merito a chi, come Celestini, a suo modo punta a parlare ad un pubblico vasto di questioni e messaggi che i mezzi di comunicazione e le occasioni pubbliche utilizzano solo come scandalistiche occasioni di propaganda.

Il razzismo è una brutta storia
di e con Ascanio Celestini
racconti: Ascanio Celestini
musiche: Matteo D’Agostino
suono: Andrea Pesce
durata: 1h 50’
applausi del pubblico: 4′

Visto a Bologna, Teatro Duse, il 28 novembre 2010

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