Il primo convegno nazionale dei Teatri di Base. “Terzo Teatro” e dintorni 2. Tamburi tra le colline

Grotowski e Barba|Eugenio Barba|Renzo Vescovi
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Renzo Vescovi
Renzo Vescovi, 1988 (photo: Gianfranco Rota)

“Nel week-end della paura Casciana non è ancora pronta per riaprire. Gli alberghi e poche pensioni hanno accettato di anticipare l’apertura per gli invitati. Stanze fredde, menù fissi. Agli indiani il sacco a pelo, mense a poche centinaia di lire. Un classico caso di discriminazione di classe? Gli invitati sono giornalisti, critici, professori. Comunque, visi pallidi.”
Un tendone tra le colline di una piccola cittadina della Toscana fuori dalla “nuova Italia” della fine degli anni ’70, quella delle vicine fabbriche e fabbrichette, un paesino di piccoli agricoltori e delle terme si “rassetta” per gli ospiti. Niente red carpet, niente stucchi e abiti da sera, solo qualche sedia di vimini e qualche pianta. Gli ‘indiani’ sono le centinaia di giovani gruppi di teatranti, i ‘visi pallidi’ i rappresentanti di una cultura istituzionale curiosi di un evento che smuove il teatro. Le parole sono quelle di Italo Moscati in “Ombre rosse a Casciana”.

Il primo convegno nazionale dei Teatri di Base organizzato a Casciana Terme, un piccolo paese in provincia di Pisa sulle colline toscane, tra il 18 e il 22 marzo del ‘77 viene ricordato da chi vi partecipò come un’esplosione nella quale le idee avevano libero sfogo.
Il convegno non riguardò esclusivamente i “gruppi di impronta Odin”, i quali facevano parte solo di un sottoinsieme del movimento; vi parteciparono 130 gruppi, nonostante le trecento schede di adesione da parte dei collettivi teatrali (“Da oggi il convegno dei gruppi teatrali di base”, L’Unità, 18 marzo 1977): circa ottocento persone, comunque, raggiungendo dimensioni inaspettate.
Nel convegno emersero, per la forza e la durezza delle loro rappresentazioni, i gruppi latinoamericani, soprattutto il Teatro Nucleo, i quali si videro “catalogati” e inglobati in quella realtà dei “gruppi di base”, ancora nuova per l’Italia.
Il tema del convegno era “L’uso del teatro nel territorio”, e i lavori si articolarono attraverso una decina di “relazioni-azioni”, presentate inizialmente dai più noti “complessi di base”, per poi dispiegarsi in un grande incontro internazionale. I gruppi di base non intendevano avere un rapporto con il “territorio” in senso meramente geografico, ma tessere delle relazioni con le strutture pubbliche che dovevano essere al servizio di una produzione culturale.

Antonio Attisani nell’articolo “E la fame?”, pubblicato su “Scena” del numero di novembre/dicembre 1976, definì i gruppi di base innanzitutto come aggregazioni “di bisogni”, aggregazioni che stabilissero un rapporto con il contesto nel quale operavano. Essi consideravano il confronto e l’indagine gli strumenti principali di conoscenza della realtà, non un momento separato dall’elaborazione artistica e culturale. Il gruppo di base, pertanto, secondo il giornalista e studioso, rappresentava il luogo di sintesi delle esigenze espresse dal territorio e quindi uno degli elementi “che contribuiscono alla formazione di un progetto culturale complessivo”. I gruppi di base riconoscevano nella cooperazione culturale e teatrale un interlocutore fondamentale per l’attuazione di un uso corretto del teatro sul territorio. Chiedevano uno stabile e costruttivo rapporto con il territorio e lo sviluppo di un dibattito sugli obiettivi politici e sulla strategia di intervento.

Eugenio Barba
Eugenio Barba a Holstebro nel 1999 (photo: Fiora Bemporad/Odin Teatret Ctls Archives)

Il convegno fu organizzato, oltre che dall’Associazione nazionale dei critici, dall’Arci, dall’Associazione regionale Toscana dei Teatri di Base e dal Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera, nonché da numerosi enti minori. Antonio Attisani (“La scoperta del teatro”, in Scena, febbraio 1977) testimonia che questi organizzatori espressero inizialmente l’intenzione di eliminare l’idea di convegno come luogo riservato alle relazioni dei “cosiddetti specialisti”. L’idea era semmai quella di organizzarlo con dei gruppi relatori che presentassero le loro esperienze prima a livello teorico ed orale, poi con la presentazione del lavoro pratico. Attorno a questi cinque o sei interventi avrebbe dovuto svilupparsi un dibattito.
Italo Moscati (“La miseria creativa: cronache del teatro “non garantito”, 1978) ci ricorda come  alla vigilia del raduno i responsabili della politica culturale della Regione e alcuni esponenti dei partiti di sinistra, non nascondessero perplessità e molte apprensioni, preparandosi a realizzare ciò che loro stessi avevano finanziato: due milioni della Regione, un milione del comune di Pontedera, un milione dell’associazione dei teatri di base toscani, quattro milioni del Centro di sperimentazione teatrale di Pontedera, tre milioni dell’Arci nazionale, oltre a tre milioni dell’associazione dei critici teatrali. Un totale di quattordici milioni, secondo Italo Moscati “una cifra da niente, se si pensa a quel che costa il teatro ufficiale con i suoi stabili e con il complesso delle sue attività”.

La presenza dei cosiddetti “gruppi di base” era ormai diffusissima. Alcune regioni, come il Lazio e la Lombardia, possedevano già un “coordinamento”, ma nelle altre regioni la situazione era più indefinita.
I gruppi confluirono così al convegno, nel quale accorsero anche molti rappresentanti di enti locali, molti osservatori e anche le telecamere della Rai.
Il programma era densissimo e prevedeva l’alternanza di momenti dimostrativi con momenti riflessivi e dialettici. Si stava cercando di comprendere, tra studiosi e critici, il fenomeno teatrale rappresentato dai giovani gruppi spontanei. Un fenomeno non solo “teatrale”, ma anche “sociologico”, come attesta Attisani nel suo articolo “La scoperta del teatro” (Scena, febbraio 1977); un’impostazione che rivelava spesso l’incapacità degli intellettuali, che gravitavano attorno al teatro ufficiale, di comprendere il movimento.
I gruppi di base non erano un fenomeno scaturito dalla tradizione teatrale, ma il risultato di una serie di bisogni passati attraverso il teatro, seppure un “teatro diverso”. Quanto detto, fece pensare ad Attisani all’inadeguatezza della tradizione di quest’arte, che non si era sviluppata in sintonia con le componenti vive del corpo sociale, ma “con quelle culturalmente inerti o addirittura retrive”. Tanto da fargli porre il problema nei termini seguenti:
“La questione teatrale è all’ordine del giorno […]. Si è già accennato ad un movimento di teatro spontaneo che ha ormai assunto proporzioni considerevoli […]. Ebbene, cos’è questo teatro? […] E ancora, qual è e quale dovrebbe essere il rapporto tra queste forme e il resto del movimento teatrale?”.

Sul significato della definizione di “gruppo di base” intervenne il regista Renzo Vescovi, direttore del Teatro Tascabile di Bergamo, con un articolo nel numero di “Scena” dedicato a Casciana Terme in cui volle precisare l’importanza del concetto di gruppo “come modo di produzione differente e come modo di cambiarsi la vita”:
“Un Gruppo si costituisce intorno a certi obiettivi col concorso di alcuni individui che ne condividono i presupposti fondamentali […]. La sua evoluzione avviene con un apporto totale dei singoli membri che lo compongono, che di fronte alla realtà storica reagiscono organicamente insieme […], in una sorta di evoluzione organica e, direi quasi, fisiologica”.
Il gruppo viene paragonato dal regista, scomparso nel 2005, ad un organismo di cui i componenti ne rappresentano le parti vitali, in continua trasformazione e crescita. Mirella Schino, studiosa e docente di Storia del Teatro, evidenzia lo sconcerto tra gli studiosi ed i giornalisti provocato da questo concetto di gruppo come singolo individuo, che sfociò in scontri e dibattiti, soprattutto durante l’Atelier di Bergamo del settembre ’77. In questo contesto apparve complicato definire la fisionomia dei gruppi di base.

Chi erano i gruppi di base a Casciana Terme?
Secondo il censimento (che risulterebbe incompleto), pubblicato da Attisani nell’appendice del numero di novembre 1977 di “Scena”, risultato dal questionario formulato dal comitato organizzatore del convegno e inviato a tutti i gruppi partecipanti, di questi gruppi teatrali spontanei di base ne esistevano circa trecento.
Sui cento di essi che inviarono le risposte al questionario, 60 erano privi di configurazione giuridica o associativa, la grande maggioranza contava un piccolo numero di aderenti, da cinque a dieci, e di età compresa tra i venti e i venticinque anni; 68 lavoravano senza alcun compenso; 26 percepivano qualche finanziamento.
Il critico-giornalista Guido Fink in “Che rabbia:  il teatro è sempre lo stesso”, (La Repubblica”, 22 marzo 1977), dipinge la realtà giovanile di chi partecipò all’evento di Casciana Terme come unita dal “ripudio di ogni vecchio atteggiamento filodrammatico”, nella subordinazione della ricerca stilistica all’impegno politico. A questo si aggiungeva, per Attisani, il problema dei “modelli da tutti rifiutati in linea di principio ma fortemente presenti con le loro suggestioni, che si tratti dell’Odin o della Comuna Baires (e le relative ramificazioni, come Zappareddu, la Comuna Nucleo, il TTB, ecc.) o di alcuni capisaldi teorici come Brecht o Artaud”. Comunque, era consistente la presenza di gruppi che non si rifacevano ad alcuna scuola.

Grotowski e Barba
Jerzy Grotowski e Eugenio Barba a Holstebro nel 1971 (photo: Roald Pay / Odin Teatret & Ctls Archives)

L’attività teatrale, per molti di questi gruppi, era molto spesso secondaria, proprio per permettere quell’autofinanziamento di cui sopra, ma vissuta come primaria. Essi erano principalmente interessati al teatro, alla sua capacità d’intervento, ma non riuscivano a mettere in pratica questo interesse, se non in maniera secondaria rispetto allo studio o al lavoro. Quanto detto rappresenta ciò che Attisani evidenziò come prima “ambiguità” dei gruppi.

Dal questionario risultò che la formazione dei gruppi avvenne attorno al 1974 e il 1976, parallelamente alla dissoluzione che si ebbe con la crisi dei gruppi della nuova sinistra.
“Tutti i giovani che prima trovavano un loro spazio nel lavoro politico, oggi (ne sono una spia i dibattiti sulla creatività) tentano di ritrovare la propria identità in un intervento che sia per loro più idoneo e offra maggiori possibilità creative – scrive Attisani – Il gruppo stesso rappresentava la condizione ideale per indagare nella propria soggettività ed identità personale e, allo stesso tempo, lavorare in relazione alle masse nell’ambito del proprio quartiere o contesto particolare. Questi punti si identificarono, nel responso del questionario, come comuni a tutti i gruppi”.

Un altro punto che risultò accomunare i gruppi, per il 34% di loro, era la scelta pedagogica e di formazione del laboratorio di ricerca. Il laboratorio chiuso, apparentemente avulso dal sociale e dal contesto politico, si identificava con una delle costanti tipologie di lavoro dei gruppi.
Molte delle domande del questionario riguardavano le scelte artistiche, come per esempio l’utilizzo dei testi teatrali. Dalle risposte risultò frequente la mediazione di un testo nell’espressività individuale, dimostrando, soprattutto riguardo ai gruppi italiani, la difficoltà a distaccarsi da una certa visione del teatro, da un tipo di teatro “schematicamente inteso secondo gli esempi ufficiali”. La lettura dei questionari permise agli studiosi di affacciarsi al mondo eterogeneo dei gruppi di base, i quali rappresentarono il preciso referente per coloro che non credevano nel teatro ufficiale, nonché per il “potere”, che da un lato, con le leggi, reprimeva la libertà d’espressione e dall’altro “cercava l’inglobamento”.
La questione teatrale era all’ordine del giorno. Per fortuna. Per fortuna, perché il teatro non venne più considerato, almeno in quegli anni, un vizio dei suoi addetti ma uno spazio in cui si esercita la critica, in cui si sperimentano forme di libertà, in cui l’intelligenza si confronta, scherzando, con la realtà, in cui è possibile una partecipazione collettiva. Il teatro come mezzo, insomma, veicolo di crescita non solo personale ma collettiva e culturale. E anche un teatro nelle piazze, nelle scuole, nelle fabbriche.
Per un certo periodo l’Italia subì un’invasione teatrale che indubbiamente sviluppò i cervelli.
Un’arma per molti, l’arma del pensiero e dell’arte, che oggi sembra quasi fuorilegge, da circoscrivere, ridurre, sottovalutare, eliminare. Tanto che, solo nell’ultimo ventennio, i finanziamenti pubblici per lo spettacolo si sono quasi dimezzati. Ma questa, ovviamente, è un’altra storia.

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