Sarebbe riduttivo applicare la formula della recensione a “Il cielo è il cielo”, prova finale del laboratorio teatrale coordinato da Massimiliano Civica cui assisto a La Spezia, frutto di un progetto biennale che ha visto profuse le energie di molte persone. Sarebbe riduttivo poiché ci troviamo di fronte a un “fatto di teatro”, ossia a un qualcosa di irripetibile e unico, di un fatto, appunto, che solo una volta può accadere e accade. Un fatto intenso, a tratti straordinario, che fa credere nel teatro e nella sua, spesso messa in discussione, necessità.
C’è un grande lavoro alle spalle del progetto ideato e condotto da CasArsA Teatro, Teatro e disabilità: le forme del corpo nascosto, che vede il coinvolgimento di un territorio e di persone e che meriterebbe un approfondimento a parte. Oltre al sostegno della Fondazione Carispe e della Regione Liguria, hanno partecipato la Fondazione Canepa, la Provincia della Spezia, l’A.S.L. 5 Spezzino e i distretti socio sanitari n. 17 Riviera Val di Vara, n.18 Spezzino e n. 19 Val di Magra.
In tutto questo mi sento solo apparentemente dalla parte dello spettatore. Il caso vuole che sia seduto ad assistere nel buio della sala, ma il fatto suddetto coinvolge e comprende fino a fonderli, come protagonisti del medesimo evento, sia gli attori che gli spettatori. Assistiamo a un cerimoniale, a un rito, all’evolversi di una situazione che ha alle spalle un lungo lavoro, che va ad intessersi in un ordito sociale che fa incrociare uomini di teatro con persone portatrici di problematiche che spesso si limitano a sfiorarci, ma non per questo muri portanti di una realtà che ci circonda. C’è una forte mano registica, pulita e essenziale, con stilemi ben precisi già espressi in lavori precedenti, ultimo in ordine di tempo “Un sogno nella notte dell’estate”.
E’ il talentuoso tocco di Massimiliano Civica, che imprime una forte impronta al tutto e riesce a fondere contenitore e contenuto, sguardo e azione, partitura scenica e improvvisazione in modo mirabile, coadiuvato dalla forza di un talento, Bobo Rondelli, la cui voce dolce e disperata, melanconica e struggente ben si amalgama con ciò che va in scena.
Tasselli altrettanto preziosi sono la dinamica corporea evocativa e melodiosa della danzatrice Alessandra Cristiani e la presenza discreta del bravo Michele Sambati. E a questo si aggiunga tutta la violenta emozione provocata dal talento degli attori, Gianni Nardi, Luca Gola, Barbara Cerchi, Andrea Cadioli, Gianfranco Sassarini, Bruno Ialuna e Matteo Maci, veri esecutori del rito, tasselli di questo cerimoniale che ha luogo in un piccolo tappeto rosso in mezzo alla scena, spazio sacro che diviene fulcro dell’azione, dove si leggono poesie (“La capra” di Umberto Saba), si mettono in scena fulminanti e icastici micro-atti (Achille Campanile), o si interpreta Petrolini, e dove ci si muove secondo un percorso prestabilito, ripetitivo, fatto di inchini e percorsi obbligati, che ogni volta ci appaiono tuttavia diversi e nuovi.
Uno spettacolo coinvolgente, la materializzazione di un “hic et nunc” del quale spesso sentiamo parlare, ma che solo raramente intravediamo.
Come dice Franco Loi: Cume se fa a parlà de la belessa? / La furma che sa dís al fiâ del cör? / La vardi e, nel murí, la mia parola / la dís dumâ del poch restâ nel mör. (Come si fa a parlare della bellezza? / La forma che sa dire al fiato del cuore? / La guardo e, nel morire, la mia / dice soltanto del poco rimasto nel morire.