Il reticolo delle costruzioni e delle coltivazioni salgono per raggrumarsi nelle architetture di Spoleto, fino a concentrarsi nel suo punto più alto, la Rocca Albornoziana, da cui viriamo per il ritorno. Mi avvicino e vedo un piccolo tondo, su cui è impressa l’immagine della Vergine e di suo Figlio… “Hai i tuoi Santi a proteggerci” dico a Pino Cirinelli, il mio pilota, titolare della scuola di volo che ci ha permesso, grazie a Massimo Clementini di e20umbria, questa esperienza in biplano.
“E anche molti di più, per tutto quello che ho vissuto e rischiato…” risponde lui, mostrandomi la mano segnata da cicatrici e calcificazioni. Riguardo quella piccola, semplice icona, e continuo a guardare fuori. Oltre.
“Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me”. E’ il Primo Comandamento. Regola, legge, dettame, da cui è partito Stefano Francesco Alleva per il primo capitolo di un progetto complesso, dalle grandi e nobili ambizioni e ragioni: quello di mettere in carne e sostanza teatrale I Dieci Comandamenti. Una delle prime scintille scaturenti questo viaggio è il grande amore per il lavoro di Krzysztof Kieslowski.
I primi cinque sono ospitati nella 56^ edizione del Festival dei Due Mondi, in attesa dei prossimi. “Decalogo – Parte I, Comandamenti da I a V”, ha quindi debuttato in prima assoluta nella Basilica di San Salvatore, patrimonio dell’umanità dell’Unesco, come molto altro nella location sorprendente di Spoleto.
Salendo per arrivare, si oltrepassa un cimitero, per giungere alla navata centrale della chiesa, dove ci si accomoda rivolti al transetto, in cui si sviluppa la scena: pedane e muri opachi, un grande balloon di plastica al centro, e in alto sul fondo uno schermo, su cui saranno proiettate formule matematiche, incastonata nell’abside un’orchestra.
Si dipanerà la vita di una coppia colta dal momento più bello, una futura nascita (lei ginecologa, lui ginecologo genetista), ma posti di fronte a una scelta drammatica, tra la freddezza del calcolo matematico e il coinvolgimento della loro umanità…
Scopriamo insieme al regista e ai suoi sceneggiatori, Mara Perbellini e Andrea Valagussa, quali sono stati i loro “Comandamenti”.
Ha ancora senso, nel XXI secolo, rivolgere lo sguardo ai Dieci Comandamenti?
S. F. Alleva: Ritengo che siano di una grande contemporaneità. La prima riflessione, a fondamento del progetto, è stata proprio che i Comandamenti sono alla base di tutto ciò che c’è nell’individuo, e della costruzione di tutti i rapporti sociali. Sono regole, punti di riferimento che vanno ben oltre a un mero precetto religioso fine a se stesso, avendo un orizzonte più ampio. E hanno valore di universalità: indipendentemente dalle posizioni di fede, culturali e spirturali. A partire dagli indios, fino ad arrivare alle civilità per così dire “più evolute”, stabiliscono norme dell’uomo nel senso più elevato.
Che approccio avete utilizzato nell’avvicinamento ai Comandamenti? Da dove siete partiti?
S. F. Alleva: Nel riflettere su di essi, ci siamo spinti al di là del livello più immediato e scontanto. Così facendo l’orizzonte delle possibilità si allarga a dismisura. Facciamo un esempio, “Non uccidere”: subito fa pensare a non piantare un piccone in testa a qualcuno. Ma su un piano ulteriore, si può ammazzare anche con una parola, privando della dignità una persona, in situazioni anche apparentemente banali.
S. F. Alleva: L’idea di base mi è venuta amando molto il lavoro che Kieslowski ha fatto per il cinema e la televisione. Ma non si tratta di un adattamento teatrale dei suoi film. Ci siamo documentati, rivolgendoci a storie di cronaca che erano molto intense e fortemente simboliche, che portavano con sé la possibilità di qualcosa di più alto. Abbiamo scritto degli inediti, con lo sforzo prioritario di affrontare temi importanti e anche delicati, che ci riguardano tutti, ponendoci dei diktat: guai a prendere posizioni di tipo moralistico, o confessionale. Il nostro tentativo è quello di proporre punti di vista opposti, contrastanti. Ognuno deve essere libero di prendere la posizione che ritiene più vicina a se stesso, o di modificarla in base ad altri punti di vista, che prima non aveva preso in considerazione.
C’è stato un commento di una persona, la sera della prima, che mi ha fatto molto piacere: mi ha detto che ha visto molta etica, ma assenza di moralismo. È uno dei traguardi più importanti che volevamo raggiungere.
A. Valagussa: La premura principale è stata quella di partire da storie vere, per evitare di essere moraleggianti, che era il più grosso rischio. Ci siamo poi suddivisi il lavoro: all’atto pratico io ho scritto due testi e Mara tre. In un’opera che è stata poi messa in comune.
M. Perbellini: Ci siamo molto confrontati, lavorando anche con gli attori e il regista: un grande privilegio. È stato un work in progress; dopo aver scritto ci siamo messi a tavolino a provare le battute e fare in modo che fossero naturali. Confrontandoci con temi così importanti, non volevamo avere la presunzione di dare delle risposte ma di suscitare domande, una riflessione. E lo abbiamo fatto attraverso metafore.
Perché un tema così forte come la gravidanza e la sua interruzione per il Primo Comandamento?
A. Valagussa: Siamo partiti da un fatto intimo, personale, di un mio amico. Lui e sua moglie desideravano un figlio da sempre. E dagli esami è stata annunciata loro la possibilità che sarebbe nato con delle malformazioni, perché i dati avevano delle anomalie. Ma nel momento dell’aborto hanno visto invece che il bambino era sano. Sarebbe stato normale. Un fatto che mi ha toccato direttamente, essendo anch’io padre. Certo, ti viene spiegato che ci può essere un margine di errore, perché sono calcoli statistici… Questa volontà di entrare nel segreto della vita, ci sembrava molto forte, come aggancio con il primo comandamento.
S. F. Alleva: Era abbastanza inevitabile affrontare la difesa della vita e l’aborto. È indubbiamente un tema estremamente delicato, presente nel bene e nel male nella dialettica quotidiana, riguardandoci tutti. Tra l’altro è una vicenda che parte da fatti reali, di persone che conosciamo, che ci ha toccato direttamente. Nella metafora capita ad un medico, che ha una dedizione totale per la scienza, facendone il suo riferimento assoluto, imbattersi in una delicatissima discrepanza tra la realtà umana e la scienza. In qualche modo, ha una sorta di parallelismo e assonanza con la storia narrata da Kieslowski, in cui un professore, profondamente razionale, legato al suo computer, con una fede assoluta nella tecnologia, commetterà un tragico errore. A causa di tutto questo, perderà ciò che ha di più caro. Confermando l’imprevedibilità della vita.
In scena compare, a un certo punto, in un movimento combinato tra moglie e marito, l’immagine dell’Uomo Vitruviano di Leonardo…
S. F. Alleva: Nell’epoca contemporanea siamo vittime di un concetto di perfezione che è assai discutibile. Anche su questo apriamo una riflessione molto ampia, e sul cosiddetto binomio di perfezione e felicità. È doveroso, attraverso i nostri testi, proporre punti di vista opposti. Ci sentiamo in dovere di rappresentarli tutti, lasciando libertà assoluta, perché sarebbe una gravissima forma di arroganza, imperdonabile da parte nostra, indicare cos’è bene o male, giusto o sbagliato. Ogni individuo deve sentirsi libero di prendere la posizione più giusta per sé.
Come mai la scelta della musica dal vivo, e la collocazione spaziale dell’orchestra in fondo alla scena, coperta ma non del tutto invisibile?
S. F. Alleva: Ritengo che la musica non sia mai un commento alla scena o alla narrazione, bensì una vera e propria componente testuale. La scelta dei musicisti dal vivo, a parte il suo grande fascino, è legata al fatto che ogni sera, come per gli attori, essi suoneranno e vivranno emozioni diverse. Com’è successo la sera della prima, con una violinista che sul finale ha pianto. Non aveva ancora “vissuto” lo spettacolo, e si è emozionata. E questo è molto importante. La collocazione nell’abside si compenetra alla scena, rappresentando un po’ l’anima che soggiace dietro al testo, e la visibilità, maggiore o minore, per me è doverosa, perché altrimenti sarebbe stata una presenza troppo incombente.
Evento collocato in un luogo magnifico…
S. F. Alleva: …che fa l’80% del risultato… [ride, ndr]. Scherzando dico agli spettatori che se non è piaciuto loro lo spettacolo, almeno hanno visto un luogo splendido. Quando mi è stato proposto ho voluto rifletterci su, perché è una scelta molto forte. Sono andato a vedere delle collocazioni diverse, più neutre, come dei capannoni industriali. Ma alla fine ho scelto questa. Oltre che per la sua forza e bellezza, è un luogo che permette di entrare in una dimensione spirituale in un senso molto ampio.
Ho saputo che hai scelto di vivere qui a Spoleto.
S. F. Alleva: Io e mia moglie ci siamo trasferiti qui da qualche anno. Questa scelta è stata un compromesso ideale, coniugando la necessità di stare vicino a Roma per il mio lavoro ed essere in un posto in cui la qualità della vita è straordinaria. Con un fermento culturale e intellettuale importante, anche se è una città piccola; e con una dimensione umana che difficilmente ora le grandi città possono garantire… Una scelta che, unita a quella di dedicarmi al “Decalogo”, fa parte di un percorso personale, legato anche a quello che sta succedendo negli ultimi anni. Tutti siamo consapevoli che stiamo vivendo un momento difficile e doloroso, dov’è necessario fare delle scelte, e dove si possono aprire delle riflessioni profonde su quello che siamo e cosa potremmo tornare ad essere. Uno dei prossimi testi sul “Terzo Comandamento”, “Ricordati di santificare le feste”, è legato a un fatto di cronaca raggelante. Una delle tante riflessioni che propone è appunto cosa siamo diventati, e cosa forse possiamo tornare ad essere, unendo al dolore la possibilità della speranza.
Vi dedicate anche al cinema e alla televisione. Quali progetti futuri?
M. Perbellini e A. Valagussa: Il nostro sogno nel cassetto è quello di realizzarne uno su Ugo Foscolo…
S. F. Alleva: Ho una formazione ampia, di cui sono molto contento, e in mente ho diversi progetti, tra cui un altro allestimento teatrale ma un po’ più piccolo. Nel frattempo, a settembre andremo a girare un documentario in Russia, su un’operazione di solidarietà che è stata compiuta dagli alpini: hanno costruito un asilo, in segno di pacificazione, nei luoghi che hanno visto settant’anni fa nella rovinosa ritirata durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa storia mi è piaciuta molto: nei luoghi in cui si innalzavano ordini e grida di guerra e di morte, ora si innalzano al cielo le grida gioiose dei bambini.