Post-arcangelo. Tra smarrimenti, accuse e difese di questo teatro in piazza

Santarcangelo 2013
Santarcangelo 2013
Santarcangelo 2013 (photo: Ilaria Scarpa)
(di più falso non c’è nulla
che il voler dire il vero)
(è vero questo approssimarsi.
è vero che a qualcosa, sempre,
noi ci approssimiamo
– anzi, ci avviciniamo,
che suona meglio,
ed è meglio di niente)

(Giuliano Mesa)

Tutto è partito da una riflessione di Massimo Marino sul suo blog Controscene, la settimana scorsa, di cui pubblichiamo solo uno stralcio: “Credo che il problema di questo Santarcangelo fatto di moltissimi assoli, che continua fino a domenica 21 con progetti vari, con tappe di percorsi, rifiutandosi quasi di mostrare cose conchiuse, sia non voler dichiarare la propria povertà e procedere per accumulo di piccole cose, non arrivando mai a lasciare segni. La ricerca è utile, ma qui siamo a meccanismi straindagati: un festival deve anche considerare la possibilità di mordere in modo forte, coinvolgendo il pubblico, il presente, aprendo visioni”.

Gli rispondeva Lorenzo Donati, su Altrevelocità, chiedendosi, fra le altre cose, “Come cambia lo sguardo, nello specifico il nostro? Cosa significa fare foto col cellulare nel buio delle sale, twittare recensioni da 140 caratteri cinque minuti dopo la fine degli spettacoli, condividere condividere condividere gli articoli su Facebook tutti in cerca di piccoli stuoli di mi piace? Sapendo che quasi nessuno supererà le prime tre righe del pezzo, ammesso che accada il miracolo del click sui nostri siti? E se tutti si sentono “post-spettatori” (dal momento che guardare leggere fruire senza intervenire è novecentesco), cosa dovrebbe fare il “post-spettatore” per eccellenza? Cosa dovrebbe fare il critico? Non ci sono risposte certe ma solo pratiche ricercate, e questo Santarcangelo · 13, almeno nel primo weekend, chiedeva di restare stupiti. Stupore da fare reagire con una sua necessaria perdita, da attivare però subito dopo l’opera, mai dentro”.

Nell’ultimo week-end del Festival di Santarcangelo, Teatro Sotterraneo ha fatto ridere e posto domande nel modo in cui fa ridere e pone domande Teatro Sotterraneo, ossia in un modo molto post-.

Mentre I Sacchi di Sabbia hanno recitato strofe in ottava rima molto belle, in una piazza d’andirivieni – auto bar bambini passanti teatranti abbaiar di cani – e non so dire se però, in tutto questo, qualcosa m’è giunto davvero, al di là dell’ultimo bellissimo verso dedicato a uno spermatozoo (“eri tempesta sciame desio ora non sei che un misero io” – cito a memoria e mi scuso con i Cantori del maggio e i Sacchi di Sabbia per l’imprecisione).

Sentirsi smarriti, se vogliamo riprendere un termine che ricorre nei due pezzi sopra citati, è qualcosa che accade sempre più spesso, e talvolta non solo a causa dell’arte come sonda o motore dello smarrimento stesso. Per comprendere questo, davvero non occorre sedersi a teatro, basta uscir di casa o anche solo leggere i post o i tweet o i commenti ai blog.
Oscilliamo da un post all’altro in modo molto post-, e Santarcangelo… come dire… è sempre stato un po’ post- più degli altri posti, come forse testimonia la lunga permanenza qui dei Mutoid, del cui sfratto dispiace.

C’è da un bel po’ di anni la questione della realtà che preme alle porte della riflessione sull’arte, ci sono interi saggi su questo, oltre ai molti interventi in rete.
La questione della realtà non è una cosa piccola, e non lo è nemmeno la questione del proprio tempo, di com’è e come non è, di come stiamo, dei nostri orizzonti, e la questione del nostro futuro e i media, e di come siamo soli coi social network e via così. Non è che uno può far finta che non sia tutto vero e da non prendere in considerazione.

Però, in mezzo a tutto questo, c’è una cosa che mi chiedo, ingenuamente e sinceramente, e molto onestamente non conoscendo la risposta, così che mi rimetto alle possibili risposte altrui. Magari la questione stessa è malposta, ma ci provo.
Il teatro (e potrei dire la letteratura, l’arte, la musica…), quando c’è, e c’è davvero, ce ne accorgiamo o no?

Certo, chi ha più strumenti – anche critici, anche concettuali – saprà apprezzare di più, sicuramente più a fondo, di chi non conosce un linguaggio. Potrà avere un’esperienza più forte e profonda. Certo l’arte che innova e indaga sempre spezza, sempre stravolge e schiaccia, sempre fa schioccare il gusto in una direzione altra, e magari alla ‘massa’ resta precluso, e sarà il tempo a modellare sia il pubblico che la ricezione dell’opera.
Però è quantomeno un po’ strano che oggi l’arte debba cercare giustificazione quasi interamente fuori di sé, o così mi pare, e non essere solo quel che è.

È antico e novecentesco chiedersi se a qualcuno importa ancora prendere in carico parole come ‘bello’, ‘attore’, ‘parola’, ‘senso’? E non solo esplodere continuamente fra nuove tecnologie e coinvolgimento dello spettatore in un modo comunque poco incisivo, poco affondante, poco ‘reale’ e persino poco teatrale?

Siamo frantumati e va bene, sembra ormai proprio del tutto assodato. Non pare dunque che un’arte che mette in scena o si occupi esclusivamente di questo sia poi così più all’avanguardia delle ‘Considerazioni inattuali’ di Nietzsche. Forse bisognerebbe scrollarsi dall’ansia di dimostrare d’esser ‘nuovi’ e ‘attuali’ e ‘originali’, e tornare invece all’arte dello stare in scena, dello scrivere bene, del trovare il modo giusto per tentare, almeno tentare, di toccarsi e tenersi insieme.
Sempre che si creda che questo, con il teatro, sia possibile. Oppure, si potrebbero cercare nuove parole per definire tutti questi confini.
 

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