Le benevole di Latella: nel male i limiti del teatro

© Alexi Pelekanos / Schauspielhaus / Steffen Höld
© Alexi Pelekanos / Schauspielhaus / Steffen Höld, Maurizio Rippa
Steffen Höld e Maurizio Rippa (photo: © Alexi Pelekanos / Schauspielhaus)
“Le benevole” di Jonathan Littell nasce da un paradosso: un autore di origini ebree che, nelle mille e più pagine del suo romanzo, entra nella mente di un ufficiale delle SS, Maximilian Aue, di cui scrive l’autobiografia cinica e dettagliata. Una cronaca quasi scientifica delle violenze del nazismo, resa ancor più inquietante dal fatto che Maximilian, cambiando identità, riesce a sfuggire ai processi sul genocidio e a rifarsi una vita diventando un produttore di merletti.
Forse proprio questa capacità d’ingerire geneticamente il paradosso ha reso “Le benevole” una delle opere sulla Shoah più importanti degli ultimi anni: il libro è diventato un caso letterario, vendendo un milione di copie in Francia (in Italia è stato tradotto da Einaudi nel 2006).  

L’idea di mettere in scena quella che lo scrittore Christian Raimo sui Quaderni del Teatro di Roma ha definito «un’istologia dell’assurdo» è venuta ad uno dei registi italiani più apprezzati in ottica internazionale, Antonio Latella. Proprio in virtù della sua statura continentale, per il suo “Die Wohlgesinnten”, Latella dirige alcuni attori dello Schauspielhaus Wien, cui si deve anche la produzione, in collaborazione con la sua compagnia stabilemobile.

Lo spettacolo, dopo aver esordito con successo a Vienna, è stato ospite del Romaeuropa Festival 2013. Per Latella si tratta dell’ulteriore passo di una serie dedicata al tema della menzogna e della rappresentabilità del male: quest’anno al Festival Drodesera è già andato in scena “A. H.” (Adolf Hitler), un lavoro in cui lo stile era più verticale e parossistico rispetto all’orizzontalità lacerante di cui stiamo per dire.

Il racconto di Maximilian Aue (interpretato da Thiemo Strutzenberger) ferisce tanto in profondità le coscienze dei lettori perché questa SS è un uomo colto, intellettuale, amante della filosofia e della musica (soprattutto di Bach). Cita Hegel e la sua Filosofia del Diritto, quando dice che la guerra è l’unica possibilità di far coincidere lo stato e l’individuo, emancipando quest’ultimo dalle pigrizie del privato.
Il personaggio di Littell, quindi, rompe con lo stereotipo della SS sanguinaria per mero istinto d’obbedienza, rompe con l’immagine accomodante di una follia di massa alimentata dall’ignoranza. Ciò che invece Littell chiede ai suoi lettori è di «entrare nei pensieri di uomini che la Storia ha già giudicato», come ha scritto Federico Bellini, che ha collaborato con Latella all’adattamento scenico del romanzo.

Raccogliendo la forte provocazione e l’alto valore conoscitivo del libro, lo spettacolo di Latella invita lo spettatore a “comprendere” il male, senza per questo dover perdonare. E il regista, come dice nelle sue note, vuole “rappresentare” questo male, cosa ben diversa sia dal raccontare che dal testimoniare. Si tratta, è evidente, di una sfida ai limiti estetici e culturali del teatro.

Nell’adattamento si mettono in rilievo tre dei personaggi del romanzo: il testo si concentra sui rapporti del protagonista con l’amico e collega Thomas (Steffen Hold) e sull’attrazione incestuosa per la sorella Una (Barbara Horvath). Allo stesso modo vengono sottolineati i rimandi alla tragedia classica, in particolare all’Orestea: nei suoi vaneggiamenti in sanatorio, Max vede sé stesso come Oreste, Thomas come Pilade, Una come Elettra. Proprio l’alone di tragicità greca stimola il parallelo con uno dei più alti esempi di teatro documentario che il Novecento abbia prodotto, cioè l’”Istruttoria” di Peter Weiss: comune a Weiss e a Littell è la capacità di usare di fronte all’abisso una parola integra, senza sfumature, violenta e gelida nel suo realismo; una parola che accumula precisione in un distacco apparente, e che in realtà addiziona tensioni interne, da cui è scossa fino al silenzio incandescente del calor bianco.

Latella fa agire questa parola all’interno di una scenografia frammentata e polifocale: a destra c’è  la tastiera di un pianoforte ribaltata su una panca, accanto a cui esordisce il corpo steso di Barbara Horvath; su tutto il palco sgabelli sparsi come api in un alveare, che vengono composti in geometrie per evocare alcuni ambienti e poi ribaltati come corpi nelle fosse comuni, dissezionati dalle luci indaganti di Simone De Angelis. Sul fondo scena viene proiettato un video a telecamera fissa, lungo quanto lo spettacolo, del Tiergarten berlinese e della sua quiete verde: una grande idea, questa di Latella, che evoca quel principio orientale – di cui parlarono sia Fortini sia Barthes – secondo cui è la stabilità del vuoto, al centro, a permettere la furia centrifuga di ciò che gli accade attorno.
Oltre al video del parco, il controcanto drammaturgico è affidato alla bravura di Maurizio Rippa, che attraversa gli spazi simbolici della scena come un esterrefatto personaggio beckettiano, trascinandosi dietro un faro legato ad un carrello e commentando la narrazione principale con interventi di canto operistico.

Come spesso in Latella, i gesti degli attori non sono descrittivi, così che quanto accade concretamente in scena potrebbe essere descritto come un dialogo agito dal corpo dei movimenti. Sarebbero tante le scene e le impressioni di particolare forza da ricordare, ma la complessità dell’intreccio visivo ne rende ancor più difficile il racconto. Ci sono dettagli che segnano e istruiscono l’occhio; penso ad esempio alle giacche e ai pantaloni smisuratamente larghi delle divise di Max e Thomas: come a mostrare la piccolezza del corpo rispetto alle circostanze storiche, a sussurrarne l’inadeguatezza, l’indolenza nascosta. Epico e grottesco si scontrano nella scena in cui Thomas, al centro del proscenio, legge a Max una lettera che, spiegata lembo per lembo, si rivela essere un drappo larghissimo: Thomas lo bucherella con la sigaretta accesa, finché le ferite circolari della carta non formano una svastica.  E poi ci sono frasi in cui si condensa l’intera energia dello spettacolo, come il «Wer bist du», ripetuto con angoscia da Max a Thomas a mo’ di socratico «Ti esti», o il tautologico motto di rassicurazione «la guerra è guerra e l’alcool è alcool».

Tuttavia, se c’è un piano drammaturgico in cui “Die Wohlgesinnten” riesce a impedire fino in fondo che l’artificio diventi manierismo, a “rappresentare” e non a “raccontare”, questo piano non è quello visivo o fisico, ma quello sonoro. Non solo la qualità delle musiche originali (composte da Franco Visioli), ma l’intera intelaiatura fonica trasmette allo spettatore l’angoscia e le pulsazioni del male. È perfetta, ad esempio, la partitura che Strutzenberger segue raccontando il drammatico attraversamento della Polonia, articolando il suo monologo secondo pause e battute segnate dai colpi dei tacchi sul palco.
Impressiona, poi, l’utilizzo di tutti i volumi e di tutte le direzioni vocali per trasformare alcuni assoli recitativi in una costruzione sinfonica, in cui all’impeto delle urla si alternano gli echi di canto di Rippa o i bassi dei segnali discorsivi («grido», «urlo»), che vengono usati da Strutzenberger come contrappunto musicale e non soltanto ritmico. Ed è efficace e straniante anche l’alternanza fra i dialoghi registrati e quelli effettivamente pronunciati, fra l’uso del microfono e la pura voce.

Questo apparente coacervo drammaturgico diventa un sistematico viaggio mentale attraverso cui ci si abitua, come per una lenta decompressione, al vuoto del pensiero umano, alla banalità della morte, a calpestare le fosse comuni e poi pulirsi gli stivali dal terriccio.
Siamo messi di fronte all’attrazione dell’assoluto e alle componenti archetipiche della psicologia nazista, siamo costretti ad ammettere che sul piano astratto il fascino di quell’ambizione era effettivamente un miraggio di senso rispetto alla mediocrità del contratto sociale e della vita borghese. Senza possibilità di chiudere gli occhi, sentiamo la forza irrazionale di tentazioni antropologiche, non storiche, che proprio per questo ci toccano qui e ora. Seguiamo il ragionamento di Max, quando giustifica con il determinismo la necessità dei «giardinieri del corpo sociale» e delle loro cesoie. Non possiamo che attestarne le qualità dialettiche, quando nel sanatorio intesse con un comunista un dialogo in cui scevera i meccanismi del potere comuni a entrambi i poli ideologici. Comprendiamo l’oscura e complice identità, nelle situazioni estreme, tra il guardare e il fare. E assieme alla follia di Max anche noi ascoltiamo febbrili, inevitabile, l’assillo delle Erinni.

Scegliendo di essere brechtiano, di sottoporre a dissezione il male chiedendo agli attori una recitazione antilirica che escluda anche nel pubblico la partecipazione emotiva, Latella lascia che sia la parte razionale del male, con ritmiche e profondità ben calcolate, a condurci e anzi abbandonarci nelle feritoie dell’irrazionale e dell’immotivabile. Questa strategia e questa complessità, questa valorizzazione del razionale in funzione dell’irrazionale, è sicuramente l’elemento più forte ripreso da “Le benevole”. Latella riesce, cioè, ad ottenere dal pubblico ciò che Littell vuole dai suoi lettori: la sospensione, momentanea e funzionale, del giudizio.

Inevitabilmente, però, l’adattamento teatrale deve affidarsi a mezzi diversi, che sono più estetici e meno narrativo-dialogici. E proprio in questa necessaria traduzione, portata a termine in modo assolutamente compiuto, il lavoro di Latella entra in cortocircuito con le sue intenzioni morali. Perché la forma, per definizione, è renitente all’uso cui vorremmo piegarla. Perfino quando la levighiamo alla perfezione.

Se c’è qualcosa che non ha convinto in questo “Die Wohlgesinnten”, infatti, non è ciò che effettivamente sarebbe migliorabile (come l’adattamento del testo, che fatica a rinunciare a parti della trama poco chiare nella resa scenica e a tagliare il cordone ombelicale con il romanzo d’origine).
Il rischio sta, al contrario, nell’effetto che scaturisce dall’insieme di ciò che è fatto a regola d’arte. Il sospetto è che, nella versione di Latella, la grama e lacerante precisione del libro si avvicini troppo a diventare un lucido, sì, ma anche calligrafico riflesso estetico.
Ecco, per quanto possa sembrare paradossale dirlo, la verità è che ho avuto l’impressione che in questo spettacolo ci fosse “fin troppa” bravura. E che sia stata proprio questa perizia tecnica, di attori, regista e collaboratori vari, a diffrangere – quasi loro malgrado – i risultati scenici.

Le reazioni del pubblico, si sa, non possono essere un criterio di giudizio. Ma colpisce la facilità con cui molti ridono, tra una tragedia e l’altra, a una battuta (inevitabilmente intellettuale) su Wagner. Provo una sensazione simile anche mentre esco, quando sento più di un commento sulla bravura incommensurabile degli interpreti, mentre qualcuno dice con un sorriso amaro agli astanti il classico: «Che botta, eh?».
In quel cicaleccio, non credo di sentire la fatica con cui si strappano le parole al silenzio, non sento la tensione di chi ha scovato (o scavato) un abisso dentro di sé, come succede quelle volte in cui l’arte affronta il buio con tutta sé stessa. O forse, banalmente, tutto questo non lo sento in me. Ho il sospetto, insomma, che questa resa scenica trasformi “Le benevole” in un’esperienza fin troppo formale, inserendo l’intellettualizzazione ficcante del romanzo di Littell in architetture drammaturgiche dove essa, più che ferire, si espone alla contemplazione.
E ciò, sia inteso, non è da imputare a Latella, che non cerca né ostenta il virtuosismo dei mezzi di cui dispone; si tratta di un rischio connaturato al teatro.

D’altronde, lo stesso regista racconta di aver lavorato a questo spettacolo per studiare i limiti del teatro e della rappresentabilità.
Per mettere in scena così radicalmente il male, il teatro non può che sfruttare alla sua massima energia l’artificio, la menzogna su cui si fonda: «L’artificio mi irrita, eppure il teatro è l’artificio», ha scritto Latella.  
Volendo provare «il fallimento della rappresentabilità e dell’irrapresentabilità del Male», “Die Wohlgesinnten” rappresenta anche il possibile fallimento di un’intera comunità rituale. Quella di chi è andato via a metà spettacolo e quella di chi è rimasto ad applaudire entusiasta.
E, a pensarci bene, questo rende il tutto ancor più raggelante.

Die Wohlgesinnten
Di Jonathan Littell
Traduzione tedesca: Hainer Kober
Adattamento: Antonio Latella e Federico Bellini
Con: Thiemo Strutzenberger (Maximilian Aue), Steffen Höld (Thomas Hauser), Barbara Horvath (Una) e Maurizio Rippa (Cantante)
Regia: Antonio Latella
Scene e Costumi: Moira Zoitl, Ralf Hoedt
Disegno luci: Simone De Angelis
Musica: Franco Visioli
Drammaturgia: Brigitte Auer, Francesca Spinazzi
Assistente alla regia: Katrin Hammerl
Assistente alla drammaturgia: Matthias Male
Assistente alla regia volontario: Felicitas Pilz
Assistente ai costumi volontario: Alana Reimer
Produzione: Schauspielhaus Wien
In collaborazione con: stabilemobile – compagnia Antonio Latella

durata: 3h 30′
applausi del pubblico: 4′

Visto a Roma, Teatro Eliseo, il 12 ottobre 2013
Romaeuropa festival 2013


 

0 replies on “Le benevole di Latella: nel male i limiti del teatro”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *