Medea (o le altre). Sepe e Paiato alla sfida di Seneca

Medea di Sepe

Medea di Sepe
Maria Paiato è Medea (photo: teatroeliseo.it)
Pierpaolo Sepe ci ha provato, ha accettato la sfida di portare in scena un autore capitale nella storia della cultura occidentale, unico esempio di tragico latino a noi pervenuto, ineliminabile nell’influenza che eserciterà durante il Rinascimento e sul dramma elisabettiano; ma della cui destinazione scenica non ci si è mai definitivamente assicurati. Perché forse i suoi drammi erano destinati alla lettura.

La sfida a Seneca è questa: immaginare sul palco personaggi complessi, di altissimo tenore letterario e filosofico, tragici nel senso che riempirà le pagine di tutta la modernità occidentale: lingua e stile elevatissimi, nutriti di retorica asiana, costante tensione oratoria, sentenze di carattere generale inserite fra i versi più intimi e particolari, riferimenti al mondo mitologico e all’universo filosofico stoico.

La curatrice del testo, Francesca Minieri, ammorbidisce l’eloquio in una traduzione sciolta, interpolata da riferimenti attuali e moderatamente allocutoria. Ma la sfida vera è sul palco.

Pierpaolo Sepe tenta la carta di un’attualizzazione simbolica. La scena è una via di mezzo tra un saloon dopo l’arrivo dei banditi – vetri rotti, un senso d’abbandono – e una delicata stanza vetrata forse persino ibseniana, del tempo della caduta, della “vendita del giardino”.
Al centro, nel mezzo di una ringhiera quadrata, un cerchio di legno su cui è proiettata flebilmente una medaglia, o una moneta Usa. L’aria americaneggiante circola infatti nei costumi di Giasone e Creonte, ma non si rassoda mai veramente, non diviene mai senso inequivocabile, né orienta la vicenda. Come la proiezione della moneta, è una luce che colora ma non s’imprime. La sfida di Medea non è vinta sul piano dell’impostazione generale.

Né è vinta dal punto di vista della recitazione. Max Malatesta è, sì, un Giasone flessuoso, insinuante e tormentato, a tratti estetizzante ma perfettamente organico in sé, calcolato, scenicamente melodioso nelle movenze e nella vocalità, che oppone alla grandezza della protagonista un modo opposto e perciò convincente di antagonismo.

Maria Paiato
è regina di insistito dolore, che riesce a evidenziare, nell’ambito del suo personale ruolo, i molteplici tratti della straniera, della strega, dell’amante, della madre; è incontestabilmente predominante sulla scena (come sulla carta del testo), piagata, traduttrice “in corpo” dei tormenti, capace di mantenere costantemente elevato lo stile della sua declamazione senza un attimo di stanchezza e senza una minima concessione ai cliché tragici o pseudotragici propri della più vieta tradizione interpretativa.

Eppure, con tutto ciò, e con tutta la qualità del lavoro personale dei singoli, non vi è organicità su palco: l’opera non è opera, non è integra. La sfida non è vinta poiché ci restituisce pezzi di grande bravura, tratti di bellezza scenica, brani di fulgore testuale, ma non un’opera in scena. Gli attori, specialmente, sembrano lasciati a sé stessi, il loro lavoro non è amalgamato, e non si accorda con il resto – tanto è vero che molti ruoli scompaiono, soffrono, sono schiacciati e rimangono quasi afoni.

L’immensa suggestione dei temi della nave Argo che per prima solcò i mari, la hybris degli uomini che la pilotarono, guidati dal fedifrago Giasone, del delitto compiuto per amore e della vendetta, dell’equilibrio proprio del saggio e del furor, dell’essere stranieri, dell’essere soli, completamente soli al mondo privi tanto di patria quanto di non-patria, di esilio, tutti questi temi non sono che accennati nella lettera del testo senza sviscerarne uno, quando proprio uno solo basterebbe a riempire un libro e, forse, un palco.
Così, tecnicamente, la tensione scema, l’idea generale mostra la corda.
Ed ecco perché la sfida di Medea non è vinta.

Ma lo spettacolo va comunque visto, e forse anche rivisto: non per la reificazione di Seneca e del suo mondo, non per la Tragedia e la sua storia, ma per abbandonarsi all’arte della Paiato, alla penetrante lingua di certe allocuzioni, al gusto nobilmente demodé della ipotassi trascinata a forza sul palco. Va visto come un esercizio estetico di ascolto frammentato.
A Torino dal 20 al 25 maggio.

MEDEA
di Seneca
traduzione e adattamento: Francesca Manieri
con: Max Malatesta, Maria Paiato
e con: Giulia Galiani, Diego Sepe, Paolo Zuccari
scene: Francesco Ghisu
costumi: Annapaola Brancia D’Apricena
luci: Pasquale Mari
regia: Pierpaolo Sepe
produzione: Fondazione Salerno Contemporanea Teatro stabile d’innovazione

durata: 1h 30′
applausi del pubblico: 2′ 30”

Visto a Roma, Teatro Eliseo, il 12 aprile 2014


 

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