E mentre i colossi hollywoodiani annunciano immanenti riletture, il mondo del teatro non dimentica quella che di certo è una delle drammaturgie più riuscite, formulando costantemente nuovi approcci al testo.
Quello di Lotte Lohrengel, alla regia di “Neverland”, si rivela subito piuttosto interessante; lo spettacolo si apre infatti rovesciando le aspettative: in scena non ragazzini saltellanti, ma due figure incurvate dal peso degli anni. Due anziani evidentemente estranei alla nota favola.
Quindi una fulminea sintesi della loro vita di coppia, fatta di momenti banali e quotidiani: semplici scambi d’affetto, saluti mattutini che ammiccano dietro una tazzina di caffè, duelli intorno alla tavola da pranzo che si propone come vero fulcro della vita familiare, e poi un mattarello per lei e le pagine di un giornale per lui diventano le trincee dietro cui ognuno impara a riparare la propria intimità, determinando di fatto una triste separazione dall’altro.
Che fine hanno fatto quindi l’affascinante Peter Pan e la sognante Wendy e la loro complicità? Ovvero, cosa succede alla nostra giovinezza, quando gli anni hanno ingrigito le nostre tempie quanto i nostri pensieri? Forse non è così lontana come sembra. La giovinezza è lì dove abbiamo lasciato anche il gioco e l’immaginazione, in un cassetto della nostra mente che il senso di responsabilità troppo spesso chiude a chiave. E non è solo il nostro eterno io bambino che vive nel nostro inconscio a reclamare nuovi sfoghi, ma, seguendo l’idea di Lotte Lohrengel, la stessa vita di coppia a necessitare dello scherzo e del divertimento per rimanere in vita. Ecco allora che, quando i due rinunciano finalmente al loro cipiglio severo e cedono finalmente alla tentazione del gioco, scivolano nuovamente nei loro immortali personaggi. Peter e Wendy tornano a vivere e con loro si rianima l’Isola che non c’è.
Ed è proprio un’isola che appare con evidenza agli occhi degli spettatori senza di fatto apparire veramente quella di Lotte Lohrengel, che con “Neverland” sembra voler analizzare con attenzione il paradosso del nome scelto da Barrie: le nuvole, le fate, il mare e le sirene sono suggestioni nate da giochi di luce o semplici elementi che, sotto lo sguardo fantasioso dei protagonisti, sanno realmente trasformarsi in posti meravigliosi e creature magiche.
L’uso di oggetti poveri come un bastone da passeggio e un ombrello (accessori legati alla figura paterna e quindi destinati a caratterizzare Capitan Uncino), due sedie, una panca e un tavolo ci ricordano costantemente che il tutto non è che un gioco che si svolge tra le mura domestiche.
Tuttavia è altrettanto facile per lo spettatore cadere nelle illusioni e riconoscere i luoghi iconici dell’isola di Peter Pan: un cellophane si dispiega ondeggiando e il pubblico riconosce il mare, la donna incrocia i piedi e tutti vedono una sirena, tre carte le incoronano il capo ed ecco sbalza la figura di Giglio Tigrato.
Ma a minacciare questo universo spensierato ecco un tic-tac cadenzato e inesorabile: è il coccodrillo che insegue Capitan Uncino, il tempo che ha ingrigito la figura paterna e l’ha mutata nello spettro di ciò che nessun eterno bambino vorrebbe mai diventare: l’adulto. E dunque proprio l’alligatore con il suo ticchettio senza posa è in realtà il vero nemico. Perché il tempo incombe anche su Peter e Wendy: l’infanzia è breve e l’adolescenza ha un canto ammaliatore. Così li vediamo in scena ipnotizzati dal sinistro ticchettio e capiamo con amarezza che in realtà anche questa avventura finirà per dissolversi.
Lo spettacolo sceglie il codice del teatro danza: si rinuncia così all’uso della parola e ci si affida totalmente ad una ininterrotta catena di immagini creata dal combinarsi dei corpi e dall’uso creativo dell’oggetto scenico, e commentata da musiche e silenzi che entrano ed escono con buona efficacia.
Vera forza dello spettacolo sono il disegno luci, realizzato con sapienza e ricchezza di effetti da Alberto Bartolini, e i due interpreti, Leonardo Diana e Giuditta Mingucci, abilissimi nelle caratterizzazioni, tanto da saper affrontare con naturalezza anche scene complesse dai repentini scambi di ruolo: su tutte il duello finale tra Peter Pan e Capitan Uncino, in cui il fatidico uncino scivola ripetutamente dall’uno all’altra in un gustoso gioco scenico.
Neverland. L’isola che non c’è
produzione: Elsinor – Teatro stabile d’innovazione
con: Leonardo Diana e Giuditta Mingucci
scene: Sergio Cangini
costumi: Ilaria Ariemme
sound design: Boris Stockman
luci: Alberto Bartolini
regia: Lotte Lohrengel
Visto a Milano, Festival di teatro ragazzi Segnali