A Roma la “Foto di gruppo in un interno” di Lisa Ferlazzo Natoli

Foto di gruppo in un interno
Foto di gruppo in un interno
Foto di gruppo in un interno

La notizia si diffonde velocemente nelle sale del Teatro Palladium di Roma: mancano pochi minuti al debutto di “Foto di gruppo in un interno” e si respira una strana atmosfera. Il comunicato distribuito all’ingresso racconta che, meno di 24 ore prima, nelle sedi dell’associazione Rialtoccupato (all’interno del ghetto ebraico romano) hanno fatto irruzione decine di componenti delle forze dell’ordine, conducendo in questura alcune persone e mettendo i sigilli alle porte (i locali destinati agli spettacoli danzanti sono posti a sequestro preventivo e probatorio; quelli destinati alla somministrazione di alimenti e bevande a sequestro amministrativo).

Contestazione a una serata mai andata in scena: il pubblico viene allontanato prima che il vero spettacolo abbia inizio. Un’azione di polizia travestita da controllo amministrativo. Come dirà un nuovo comunicato di Rialto del 26 marzo un evento riconducibile “alle lamentele degli abitanti della zona e alle attività di controllo del centro storico da parte delle forze di polizia”. Un intervento, va detto, applaudito in primis dalla comunità ebraica residente.
Sembrerebbe quasi che qualcuno voglia spegnere la cultura, soprattutto quella non ufficiale. Sentori di nuovi fascismi? Chiamateli come vi pare.

Il Rialto Santambrogio è una struttura autogestita che da dieci anni promuove e produce cultura contemporanea nella capitale. Può essere considerato tra i luoghi di riferimento della nuova scena teatrale romana, negli ultimi anni particolarmente fertile. Il Rialto, insieme ad altre strutture indipendenti, fa parte di Ztl Zone Teatrali Libere, una rete teatrale costituita nel 2004.
Ed è proprio Ztl a presentare al Palladium il nuovo spettacolo di Lisa Ferlazzo Natoli: si parla di vecchi fascismi, meno sottili dei nuovi, solo più dichiarati.

Siamo nel 1933, a Trieste. Nella casa di infanzia di una famiglia borghese un ritrovo di parenti e amici. La famiglia è di origine ebraica ma nessuno inizialmente sembra temere il governo fascista né le restrizioni razziali che si preannunciano alle porte.
Le porte, quelle vere, vengono trasportate dagli attori sulla scena. Si aprono, si chiudono e sbattono; gli attori vi entrano e vi escono con movimenti coreografici ben costruiti (ardito omaggio a Wim Vandekeybus?) che intervallano le parti dialogate. Sono queste a disegnare una specie di ‘sit-com’ in stile noir, una pièce da “teatro dei telefoni bianchi” con un pizzico di thriller.

Ciò che emerge fin da subito nello spettacolo – o nella sua “prima variazione”, come tiene a sottolineare l’autrice – è la messa in scena del testo, ben realizzata dai giovani attori protagonisti, tutti all’altezza. Viene illustrata una situazione familiare in cui si respira l’ansia della dittatura e delle due guerre non lontane. Si respira quella instabilità da terra di confine, l’inizio della fine, una situazione da esorcizzare.
E allora, cosa c’è di meglio che scattare qualche confortante fotografia di famiglia? Ecco la chiave del titolo: queste foto, risolte scenicamente in alcune ‘stop motion’ collettive distribuite durante lo spettacolo, rappresentano al tempo stesso la memoria e il vuoto esistenziale dei personaggi. Il giudicar se stessi e gli altri.
Oltre al testo, merita attenzione la scelta delle musiche, particolarmente suggestive: da Maria Callas al valzer, da “Faccetta nera” a Chopin, dalle ballate hiddish all’intramontabile “Quizas, quizas, quizas”.

Resta un interrogativo: molti spettacoli di ricerca si presentano come “primo studio”. Perché non avere il coraggio di definirsi “spettacolo finito”, soprattutto quando è piacevole e ben ritmato come in questo caso? Sarà a causa dell’eterna crisi dell’artista in cerca della perfezione? Tormento narcisistico? O mancanza di tempi e spazi rispetto alle esigenze artistiche e produttive?
Abbiamo assistito al debutto della “prima variazione”. Quante altre ce ne saranno o quando il progetto sarà concluso non lo sappiamo. Del resto l’arte è (o dovrebbe essere) ricerca continua, e quindi un certo modo di far teatro potrebbe non portare mai ad uno spettacolo compiuto.
Rimangono i complimenti a Lisa Natoli, per un racconto sulle insidie del vecchio fascismo rivelato attraverso i modi freddi e distanti di questo interno familiare.
Ma rimane anche lo sguardo attento affinché, di fascismi, non ne nascano di nuovi.
Meglio sbattere le porte.

FOTO DI GRUPPO IN UN INTERNO
studio per uno spettacolo – I variazione
progetto e regia: Lisa Ferlazzo Natoli
scrittura collettiva con: Vladimir Aleksic, Ilenia Caleo, Caterina Carpio, Simone Castano, Antonio Cesari, Fortunato Leccese, Elisa Lucarelli, Emiliano Masala, Alice Palazzi, Caterina Silva
aiuto regia: Kadia Baston
assistenti alla regia: Valentina Morini, Matteo Latino
luci: Luigi Biondi
scene: Fabiana Di Marco
consulenza costumi: Gianluca Falaschi
movimenti di scena: Damir Todorovic
diapositive di scena: Maddalena Parise
prodotto da: Ztl-pro, AngeloMai, Kollatino Underground, lacasadargilla e Centro RAT/ Teatro dell’Acquario
con la collaborazione di: Teatro Forte
durata: 1 h
applausi del pubblico: 1’ 47’’

Visto a Roma, Teatro Palladium, il 21 marzo 2009
Prima assoluta

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