Spiro Scimone: intervista tra Messina e Dublino. Festa!

La Festa (photo: teatrofrancoparenti.com)
La Festa (photo: teatrofrancoparenti.com)
La Festa (photo: teatrofrancoparenti.com)

Il giorno de “La festa” piove a dirotto. Entro al Teatro Verdi di Corsico, cintura meridionale di Milano, saltando fra le pozzanghere del cortile a pietroline. Il rumore, la situazione, il corridoio, quasi fosse scuola. Nella stanzetta dietro il palco, Spiro Scimone, Francesco Sframeli e Gianluca Casale chiacchierano quasi giocassero a carte. Una bella sensazione di gruppo, di coesione semplice, di condivisione dell’intento artistico.
Ci facciamo strada, attraversata la scena nuda e cruda come lo spettacolo, verso la platea, dove ci accomodiano per l’intervista.

La compagnia ha percorso in questi anni tanta strada, a partire dal 1994, l’anno di “Nunzio“, opera prima interpretata da Scimone accanto a Francesco Sframeli, con la regia di Carlo Cecchi. Al testo sarà poi ispirato “Due amici”, il film realizzato nel 2001 che, l’anno successivo, vincerà il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia per la migliore opera prima.

I due sono stati interpreti della Trilogia Shakespeariana (“Amleto” nel 1996, “Sogno di una notte di mezza estate” nel ’97 e “Misura per misura” nel ’98), che Cecchi mise in scena al Garibaldi di Palermo. Due anni dopo, nel ’99, arriverà “La festa”, per la regia di Gianfelice Imparato. E’ il primo testo di Scimone in lingua italiana; i due precedenti sono infatti in dialetto messinese. Ma anche in questo caso l’italiano è comunque declinato al meridionale, sia nella costruzione della frase, sia nella cadenza impressa ai termini, che ha il sapore di Ciprì e Maresco ma anche di Beckett: dialoghi brevissimi, a volte oltre il limite del sensato, fatti di frequenti ripetizioni e variazioni sul tema.

L’introduzione di un terzo personaggio, rispetto ai lavori a due precedenti là dove però il terzo era invisibile ma incombente, offre a Scimone ulteriori opportunità di raccontare il tragico universo del disagio familiare, con una madre che ha perso qualsiasi femminilità, un marito pusillanime, violento e alcolizzato, e un figlio imbelle, piegato su se stesso dal mal di vivere.
Con questo lavoro, Scimone otterrà l’autorevole riconoscimento della Comédie Française che presenta in cartellone la pièce, tradotta in francese da Valeria Tasca e con la regia di Galin Stoev.
Lo spettacolo, di cui proponiamo qualche sequenza, è un testo deflagrante e tragicomico, esplosivo, fatto di parole e gesti, di silenzi annoiati e attese sporche, farcito di un tenore di vita sottoproletario che non è solo nelle mancate possibilità, ma anche nelle mancate parole, nelle inesistenti dolcezze, in quella violenza che permea tutto.
Sono passati dieci anni e la drammaturgia si conferma attuale: cinquanta minuti, nessun fronzolo, efficacia comunicativa e scenica totale. Un lavoro di eccezionale potenza, che non si dilunga inutilmente e si conficca nella carne, parola dopo parola.

A Corsico, un paese dell’hinterland milanese di emigranti e sottoproletariato, la messa in scena ha un sapore ancora più intenso. Ospite per il secondo anno consecutivo della bella rassegna Incontri, organizzata da COMteatro, realtà particolarmente attiva sia nelle ospitalità/produzioni, sia come scuola di teatro, la compagnia Scimone/Sframeli raccoglie un consenso fragorosissimo.
Quanto può essere aperto e sconfinato il confronto con uno che dal 1995 al 2007 ha vinto due volte l’Ubu (miglior autore e miglior testo – Il cortile), una volta il Leone d’Oro per l’opera prima e una il premio Hystrio alla drammaturgia (2007), è facile intuirlo. La semplicità e la modestia, la disponibilità al confronto e la limpidezza ideale di Spiro Scimone avvincono, testimoniando cosa significa essere davvero un artista.

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