Si è concluso positivamente il primo fine settimana del Festival di Santarcangelo, giunto ormai alla trentanovesima edizione. Dopo le mille vicissitudini delle varie annate contestate e criticate sembra che la triade Chiara Guidi, Enrico Casagrande ed Ermanna Montanari (direttori artistici in successione fino al 2011) sia riuscita a riportare il teatro in piazza senza sacrificare la ricerca e lo sguardo al contemporaneo.
Positivo è, prima di tutto, il riscontro sulla città, viva e ripopolata da un lato grazie alla scelta di utilizzare come spazi quasi esclusivamente luoghi del centro (gli anni precedenti erano coinvolti anche teatri e spazi in paesini limitrofi): così lo spettatore, quest’anno, riesce a muoversi a piedi tra i saliscendi dell’incantevole paesino. Inoltre il programma off del festival, costruito tramite un bando rivolto a tutte le compagnie, ha ottenuto moltissime adesioni e ad ogni angolo di strada, in ogni anfratto, piazzetta o grotta, ci sono artisti o installazioni, performer e musicisti che invadono la città offrendo momenti di intrattenimento anche a chi non ha trovato i biglietti per assistere agli spettacoli del programma ufficiale (biglietti che- ahinoi – sono davvero pochi, data la capienza limitata di moltissimi spazi).
Per quanto riguarda gli spettacoli in programma, il direttore artistico dell’edizione 2009, Chiara Guidi, ha deciso di concentrare l’attenzione sull’ascolto, chiedendo a diversi artisti, italiani e stranieri, di pensare ad un luogo del paese e farlo suonare, concependo il programma come un unico spettacolo composto dalle varie performance.
Molti spettacoli hanno durata breve e questo può esser visto positivamente, poiché nelle sperimentazioni spesso si nota una buona idea che, eccessivamente dilatata, perde la sua efficacia.
Ad inaugurare il percorso di Klp a Santarcangelo è “La macchina di Kafka” di Masque Teatro, dove il corpo del performer (la bravissima e inquietante Eleonora Sedioli), gli spostamenti del pubblico e l’ambiente sonoro circostante determinano il funzionamento di pianoforti ed oggetti sonori, creando una vera armonia tra ciò che si vede e ciò che si sente.
Siamo poi stati risucchiati nel buio pesto di Filippo Tappi che, con “Dilata interiora”, immerge lo spettatore in una dimensione di cecità assoluta e silenzio: una pausa, un respiro, un momento di intimità profonda con i propri compagni di viaggio e gli abitanti del luogo buio in cui si può stazionare quanto si desidera.
Lo storico esperimento di Alvin Lucier, “I’m sitting in a room”, nato nel 1970 e attualissimo ancora oggi, permette di osservare la trasformazione del suono nel tempo e la contaminazione della voce con le frequenze e le vibrazioni dell’ambiente circostante. In un loop di registrazioni di voce e suono ambientale la voce tende a sparire lasciando spazio ai rumori della stanza che creano musica.
Coinvolgente e toccante la performance di Muta Imago, “La stanza di M”, per dieci spettatori alla volta che assistono all’incubo della protagonista, vedendone i fantasmi del passato, di cui lei non riesce a liberarsi e di cui sembra inconsapevole.
Intelligente e simpaticissimo il duo Jonathan Burrows e Matteo Fargion, che con “Speaking Dance” suonano a ritmo incalzante passi di danza, permettendoci da un lato di immaginare favolose coreografie e dall’altro di divertirci grazie alla loro abilità ed espressività.
Intrigante il lavoro di Kinkaleri, “Io mento” tratto da “Le serve” di Genet, in cui una “signora” ritagliando giornali e sorseggiando una tisana, recita a denti stretti diversi passi del testo, impersonando le due protagoniste.
E per finire, a mezzanotte, ecco le splendide proiezioni di Apparati Effimeri sull’Arco Trionfale di Papa Clemente XIV nella piazza centrale di Santarcangelo.
L’appuntamento è ora al prossimo week-end!
Ciao Kiara,
rispondendo alla tua domanda…personalmente penso di sì. Credo che “l’effetto festival” inteso come momento di cultura e socializzazione possa essere addirittura amplificato. E’ piacevole girare come trottoline per le vie e i luoghi che ospitano un festival, incontrando e rincontrando persone conosciute e sconosciute con cui fare due chiacchere su ciò che si vede. “Io ho Muta Imago tra 5 minuti. Io Kinkaleri tra venti. Bevo una cosa con lui che ha i Masque tra un quarto d’ora e ci si vede in piazza per mangiare prima di farci i giapponesi insieme e risepararci per Apparizioni Effimere e Telemomò di Cosentino?”.
Diventano tutti piccoli organizzatori e grandi critici. Ci sta. E’ piacevole. Schizzare da una parte all’altra schivando carrozzine e gruppi di sessantenni curiosi che con il gelato in mano mettono un euro nel cappello di un artista all’incrocio di due vie. Penso anche che Santarcangelo Immensa debba essere aperta ai bimbi con spettacoli a metà mattina e nel pomeriggio. Forse proprio sfruttando il tema “musica” di questa edizione si sarebbe potuto iniziare un percorso formativo sui più giovani e che chissà, se in futuro si fossero messi in testa di fare gli artisti, almeno avrebbero diminuito il gap che si è evidenziato nei confronti degli stranieri….
inoltre c’è un discorso artistico legato al cambiamento che in teatro si sta verificando dal basso. I giovani gruppi emergenti del panorama italiano hanno tutti un linguaggio che tende all’arte contemporanea più che alla scena. Non ci si sente più “obbligati” a creare spettacoli che “durino almeno un’oretta” per essere programmati nelle stagioni. Vero è anche che i teatri non si sono ancora conformati a questa tendenza. Rimangono dunque i festival. E Santarcangelo potrebbe dare anche maggiore visibilità a questo “sottobosco” italiano…
Edoardo
Sì Edoardo è vero. Questi mini spettacolini che ho visto mi son piaciuti, poiché solitamente mi annoiavo, di Masque solitamente mi piacevano molto i primi 10/20 minuti, di Muta Imago leggo una narrazione nella piccola cosa che hanno fatto, però riflettendo… non ho visto nessuno spettacolo. Ho visto delle performance divertenti, ma nessuno spettacolo confezionato e compiuto. La domanda ora è: ha senso fare un programma così fitto di piccole cose a scapito di meno cose corpose???
Molti delusi e molta delusione. Se è doveroso essere soddisfatti del ripopolamento del festival e anche giusto sottolineare l’incapacità degli “artisti” (?) italiani di rapportarsi ad un linguaggio che non gli è proprio. Mentre gli ospiti stranieri confermano la loro abitudine alla malleabilità e alla multidisciplinareità, i nostri, ahimè, danno sfogo a semplici intuizioni che mai raggiungono quel minimo di completezza per essere visibili. Poche idee e per niente realizzate (vedi Masque). Molto meglio la semplicità del duo Giapponese. Un “immenso” grazie invece agli artisti intervenuti a cappello che hanno realmente lasciato una scia in questa prima fase di festival.
Edoardo