Un film non sulla danza o per la danza quello che Saburo Teshigawara, danzatore, coreografo e direttore di fama internazionale, ha realizzato tra Giappone e Italia, in particolare nelle Marche e, ancora più in particolare, fra Civitanova e le sue campagne.
Da un grande artista arriva un film sull’immaginario, dove le partiture corporee sono solo piccoli accenni visionari e metaforici e, pur nella loro brevità, ricche di rimandi a emozioni profonde e oniriche.
Ma come dirà lo stesso regista nell’incontro che segue il film (presentato in prima nazionale quest’estate a Civitanova), rispondendo a una domanda dell’esperta di danza Leonetta Bentivoglio, bisogna partire da altro per arrivare alla danza; la danza è uno dei mondi possibili e deve e può vivere solo nutrendosi degli altri mondi che la circondano.
La direzione della fotografia è firmata da Bengt Wanselius – maestro di fama internazionale per lungo tempo direttore della fotografia di Ingmar Bergman – e Akiko Ashizawa.
La trama è affidata alla figura di un bambino, Takeya Teshigawara, figlio dello stesso Saburo, e prende spunto da un episodio autobiografico, un rito che Saburo Teshigawara compiva la sera mentre aspettava che la mamma preparasse la cena: con una rotella segnava la terra con un gesto minimale e ripetitivo, fintanto che la terra stessa diventava luminescente. Compiuto con la serietà di un lavoro, questo gesto – nella sua ripetitività – riesce a trasportare il bambino dentro un sogno fatto di luci calde e terre rigogliose, corse in vicoli tagliati dal sole e stanze ricche di memorie. Riconosciamo le sale del Palazzo Ducale di Urbino, dove il bambino entra con passi incerti e spaesati, tra il mormorio dei personaggi dei capolavori di Piero dalla Francesca, le campagne ricche di viti dell’entroterra marchigiano e gli splendidi scorci medievali delle strade di Civitanova, così ricchi di luci e calore in contrasto con il paesaggio giapponese, volutamente scuro di una notte profonda che circonda una casa rigorosa e precisa nel suo minimalismo.
Altri contrasti segnano le due parti del film: personaggi inseriti in grandi scorci di paesaggio nella parte italiana, primi piani strettissimi sui visi in quella giapponese, visi che emergono dall’ombra e raccontano storie lontane senza parole, solo con il loro sguardo e la loro presenza. La scelta assume un ulteriore significato quando, nell’incontro successivo al film, il regista racconta un mito giapponese che è all’origine dei segni che compongono la parola “interessante” nella sua lingua; il mito parla dell’apertura di una porta di pietra nel cui spiraglio compare un viso che assume un’evidenza perché illuminato da una forte luce; letteralmente la parola interessante è “volto bianco”, cioè un volto che da solo racconta, esprime, convoglia lo sguardo e l’attenzione.
Le parti danzate sono riservate esclusivamente alla parte giapponese. A Rihoko Sato è affidato il ruolo della mamma, che vediamo inquadrata sempre di schiena, esattamente come il bambino Saburo se la ricorda, impegnatissima a preparare la cena, agitata da una danza isterica che la percuote e la smembra, mentre pezzi di verdura volano tra le mani, e la pentola e un pesce, accarezzato prima come un amante, viene poi ridotto a pezzi.
Saburo Teshigawara ci offre invece, nel suo stile inconfondibile, una danza di mani artigliate, mani che strappano il bambino alla sonnolezza per lanciarlo in un altrove surreale.
Il film si chiude nuovamente sulla ferita luminescente che segna la terra; la striscia ormai è più lunga del bambino che l’ha creata, ed è una scena di volti sorridenti e aperti, di riconciliazione e condivisione, forse segno di una crescita, di un passo in avanti compiuto nel mondo.
Alla domanda specifica che sempre Leonetta Bentivoglio rivolge al regista proprio su questo finale, Saburo Teshigawara risponde deviando, slittando, “danzando” sopra le parole, così come fa per tutto l’incontro, dosando le parole, suggerendo per immagini, rimandando sempre ad altro.
Straniante vedere un film a teatro sapendo che il regista è un grande coreografo; i parametri di fruizione e valutazione si mescolano, lasciando comunque l’idea, folgorante nella sua semplicità, che l’arte non ha e non deve avere confini di genere e che forse, in questa epoca di sconfinamenti, è quanto mai importante che la danza non si esaurisca nella reiterazione di sé ma trovi nutrimento altrove, rifondando la sua specifità.
In effetti “A boy inside the boy” lavora esattamente come la danza sul segno che l’immagine lascia e suggerisce nei suoi infiniti rimandi, riuscendo a collegarsi senza mediazione alcuna all’esperienza personale di ogni singolo spettatore. Nessuna parola a inquinare o incanalare i significati ma una apertura totale al mondo dei possibili sensi.
Il film sarà presentato il 3 ottobre a Romaeuropa e il 15 ottobre a Ferrara.