Adatti ai lavori. Preferite una recensione o sette nuovi spettatori?

Barbe à papa - Zucchero filato
Barbe à papa - Zucchero filato
Barbe à papa (photo: macultureconfiture.com)
Anni fa leggendo “L’uomo senza qualità” di Robert Müsil rimasi molto colpito da una domanda posta dall’autore che – ricorro alla mia labile memoria – si interrogava sul fatto se fosse meglio salvare un’opera d’arte o la vita di mille persone. Molte le considerazioni che possono germinare da una riflessione del genere, soprattutto se non ci lasciamo travolgere da un’istintiva e immediata risposta.

Trovandomi talvolta a teatro, nel corso degli anni, e soprattutto quando si parla di festival, mi diverte osservare come sia facile, guardandosi intorno, riuscire a riconoscere e attribuire dati anagrafici precisi a un’alta percentuale di coloro che presenziano all’evento.
E’ un gioco assai divertente, che distrae dall’attesa causata da ritardi e inconvenienti, e sottrae a futili chiacchiere che sovente saturano l’aria.
Ho notato, nel corso del tempo, che la percentuale alla quale sopra si accenna è andata in vertiginoso aumento, colpa forse degli anni che passano e che ci fanno porre l’attenzione solo sui “soliti noti”.

Ecco quindi tra il pubblico dei festival critici, studiosi, attori, organizzatori, registi, tecnici etc. etc., dove sono i primi della lista a farla da padrone: sempre in prima fila, riveriti e curati, con tanto di borsina omaggio che ne canti al mondo il ruolo e la professione. Quasi che fossero la colonna portante nella struttura di un festival: quasi che una loro recensione o un loro pezzo decidessero il successo o l’insuccesso di fatiche che hanno alle spalle mesi di lavoro, progettazione e ben altro. Fondamentale che si parli di uno spettacolo, di un festival, certo. Scripta manent.
Ma in troppo pochi riflettono su quanti spettatori tout court siano presenti, su quante persone “nuove” o esterne al baraccone (absit iniuria verbis) siano presenti. Quasi che uno spettacolo con trenta presenti di cui un terzo composto da critici “valga” molto di più di un altro sul quale vengono scritti due o tre pezzi e a cui assistano ottanta persone di derivazione ed età eterogenee, che scelgano il teatro così come possono scegliere di leggere un libro o di passare una sera al ristorante.

Esondante e inarrestabile appare oramai la presenza – talvolta addirittura soffocante – di tutti questi addetti ai lavori, che forse sarebbe più opportuno definire “adatti ai lavori”, per la loro capacità di trovarsi a loro agio in queste situazioni, con l’aria di chi partecipa a un pranzo natalizio allargato e tanto atteso, dove si sprecano sorrisi, abbracci, attestati di stima e una sorta di gentilezza affettuosa, che finisce con lo spandere nell’aria quell’odore di zucchero filato da bancarella delle giostre, un effluvio dolciastro che alla seconda zaffata già lascia un certo senso di nausea.

Sempre più mi interrogo, quando vado a teatro, “tempio sacro della civiltà e salvifico fulcro dell’etica di questo Paese sempre più sull’orlo del baratro morale ed economico”, dove ci si appella sovente a figure carismatiche di un tempo che fu, senza mai occuparsi a fondo di questo presente sfuggente e impalpabile, presi come siamo ad avere il posto in prima fila con scritto “riservato”.

Così mi chiedo, prendendo spunto da Müsil: meglio la recensione di una grande firma su un giornale nazionale o la presenza di sette spettatori nuovi? Ed uso il numero sette in tutta la sua valenza simbolica.
Una delle risposte possibili, facili e immediate è quella della naturale convivenza di entrambe le cose. Quindi ben venga il critico così come il nuovo spettatore, dove con l’aggettivo “nuovo” si intenda semplicemente il non “adatto ai lavori”. Ma per far questo non basta proporre spettacoli che escano dai luoghi teatrali e invadano piazze, bar o strade, perché questi si esauriranno al loro scadere, lasciando – solo in rari casi – piccoli semi che, con troppa facilità, moriranno o saranno inghiottiti da voraci uccelli.
Anche a patto che sopravvivano e riescano a germogliare, chi si occuperà poi di concimare e innaffiare queste piantine fragili, facendo sì che crescano, si irrobustiscano fino a formare piccole aree verdi?

L’evento (rassegna, festival, notte blu che sia…) è un fuoco di artificio straordinario e rumoroso, che “tutti” vedono e ammirano, pronti tuttavia al mattino seguente a pensare ad altro.
Ciò che serve è semmai qualcuno che abbia la voglia e il tempo di andare nel bosco, a raccogliere legna, accatastarla in modo ordinato e occuparsi di tenere acceso un piccolo fuoco che scaldi e raccolga attorno a sé persone.
 

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  1. says: Renzo

    Anche perchè certe borse ultimamente sono improponibili e io ne ho una collezione ormai strabordante. Quindi o ci cambiano gadget, dandocene magari uno un po’ più mimetico (bene le chiavette usb ma la tecnologia avanza, occorre superare la soglia dei 2GB !!), o iniziare ad abdicare a questo fastidioso ruolo di portaborse del nulla potrebbe essere un’idea sana.
    DEvo dirti, però, M&Ms, che il tuo punto di vista soffre di un’intimissima e umanissima autoreferenzialità non cattiva ma reale, nel senso che noi ci conosciamo, ci vediamo, ci riconosciamo. Conosciamo meno, è ovvio, i sette spettatori (a volte nuovi a volte sette proprio sette che ci sono) e devo dire che spesso mi fermo piuttosto a parlare con loro che con i noiosi colleghi verbaferenti.
    Il riconoscimento di sè e della propria specie è uno dei gradi della creazione e dell’evoluzione della societas. Non so se positivo o negativo ma mi sa che ne parla anche Lorenz ne l’Anello di re Salomone. Mi spiego: tu come fai a parlare di questo fenomeno che descrivi? Perchè ne hai/hai avuto esperienza diretta e rientra fra le cose che hanno impattato sul tuo stato emotivo. Diversametne sarebbe una cosa che ti lascerebbe fondamentalmente neutrale.
    Il passaggio logico che questo impatti o importi anche su quelli che non hanno la shopper è una cosa su cui secondo me spendono le loro considerazioni o gli altri che hanno la shopper o gli addetti ai lavori (attori, registi, rosiconi ecc), che riconoscono quelli con la shopper, attribuendogli un “ruolo”, una funzione sacerdotale.

    Gli altri secondo me (sette o più di sette, nuovi o vecchi) se ne fottono abbastanza di questa umanità autopercepita ed autoesaltata. Sanno che è parte del circo. Li riconoscono. Ogni tanto qualcuno gli fa una domanda naif, che equivale a lanciare la nocciolina nella gabbia della scimmia, per vedere che fa o che dice la scimmia. La scimmia shopper risponde, dall’altro delle sue mille e più visioni, spiega, accomoda, universalizza il mondo a misura del proprio canone estetico.

    Per molti, pe te, per me, è una passione. Staremmo, e in moltissimi casi stiamo, seduti dove caxx ci mettono, andiamo anche dove e quando non ci accreditano, facciamo chilometri per vedere qualche matto che si è inventato una roba, un numero nuovo, un clown o una donna cannone che prima di volare nel cielo ci mostrerà le natiche.

    E io stringendo la mia shopper cercherò di guardare di che colore ha le mutande. Non sarà reato e diopadre avrà pietà di me. In questo, sarò pure sacerdote o vescovo, ma della diocesi d’Argentina !!!!! Viva i vescovi accompagnati, viva il matrimonio sacerdotale, i sette nuovi, i sette contro Tebe e finanche il cerchio chiuso. Nulla è pericoloso o brutto di per se stesso, ma sempre e solo in relazione a ciò che lo circonda.
    Persino avere una cascina piena di legna può diventare pericoloso, se magari di colpo prende fuoco.
    Il tuo è un inno alla formica della formazione lenta, progressiva, instancabile.
    Non è che brindo alla cicala e agli altri insetti che le ronzano attorno, ma ne rivendico la sana e peccaminossisima, autoreferenziale, inutile presenza. Anche solo per sentirne il soporifero cricri nei festival estivi.
    Cricricricricricricricricricricricricricricriricricricricricricricricricricricricricriricricricricricricricricricricricricricriricricricricricricricricricricricricricriricricricricricricricricricricricricricriricricricricricricricricricricricricricriricricricricricricricricricricricricricri

  2. says: Daniela A.

    In molte (troppe) occasioni è come se il teatro, dall’alto della sua intellighenzia, cercasse di far di tutto per rimanere circolo chiuso. Pochi i casi che vanno in senso opposto (e spesso duramente criticati da alcune frange di addetti ai lavori) . Perché il teatro non può essere “pop”, senza che a questo aggettivo si riconoscano solo connotazioni negative? Perché tutta questa ostentata distanza dal pubblico? Allora è giusto che muoia e non abbia più soldi, se dev’essere solo soddisfazione di un proprio ego (lo si faccia per sé e con le proprie risorse economiche: che problema c’è?)…

    Bello sarebbe se si imparasse tutti ad essere meno autoreferenziali, a qualsiasi categoria di “adatti ai lavori” si appartenga. Magari a teatro ci si annoierebbe pure di meno!

  3. says: Francesco P.

    Il teatro da tempo ha abbandonato il pubblico. E chi cerca di bypassare la pletora di critici o sedicenti tali, di organizzatori, di operatori, viene, quasi inesorabilmente, spazzato via o, sicuramente, fatica il doppio per fare i suoi primi 100 metri.
    Manca una strada, per raggiungere quei sette spettatori, senza passare dai critici. O meglio, l’unica strada alternativa passa dalla televisione, ed è assurdo che si lasci il monopolio del “pop” alla televisione.

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