Trovandomi talvolta a teatro, nel corso degli anni, e soprattutto quando si parla di festival, mi diverte osservare come sia facile, guardandosi intorno, riuscire a riconoscere e attribuire dati anagrafici precisi a un’alta percentuale di coloro che presenziano all’evento.
E’ un gioco assai divertente, che distrae dall’attesa causata da ritardi e inconvenienti, e sottrae a futili chiacchiere che sovente saturano l’aria.
Ho notato, nel corso del tempo, che la percentuale alla quale sopra si accenna è andata in vertiginoso aumento, colpa forse degli anni che passano e che ci fanno porre l’attenzione solo sui “soliti noti”.
Ecco quindi tra il pubblico dei festival critici, studiosi, attori, organizzatori, registi, tecnici etc. etc., dove sono i primi della lista a farla da padrone: sempre in prima fila, riveriti e curati, con tanto di borsina omaggio che ne canti al mondo il ruolo e la professione. Quasi che fossero la colonna portante nella struttura di un festival: quasi che una loro recensione o un loro pezzo decidessero il successo o l’insuccesso di fatiche che hanno alle spalle mesi di lavoro, progettazione e ben altro. Fondamentale che si parli di uno spettacolo, di un festival, certo. Scripta manent.
Ma in troppo pochi riflettono su quanti spettatori tout court siano presenti, su quante persone “nuove” o esterne al baraccone (absit iniuria verbis) siano presenti. Quasi che uno spettacolo con trenta presenti di cui un terzo composto da critici “valga” molto di più di un altro sul quale vengono scritti due o tre pezzi e a cui assistano ottanta persone di derivazione ed età eterogenee, che scelgano il teatro così come possono scegliere di leggere un libro o di passare una sera al ristorante.
Esondante e inarrestabile appare oramai la presenza – talvolta addirittura soffocante – di tutti questi addetti ai lavori, che forse sarebbe più opportuno definire “adatti ai lavori”, per la loro capacità di trovarsi a loro agio in queste situazioni, con l’aria di chi partecipa a un pranzo natalizio allargato e tanto atteso, dove si sprecano sorrisi, abbracci, attestati di stima e una sorta di gentilezza affettuosa, che finisce con lo spandere nell’aria quell’odore di zucchero filato da bancarella delle giostre, un effluvio dolciastro che alla seconda zaffata già lascia un certo senso di nausea.
Sempre più mi interrogo, quando vado a teatro, “tempio sacro della civiltà e salvifico fulcro dell’etica di questo Paese sempre più sull’orlo del baratro morale ed economico”, dove ci si appella sovente a figure carismatiche di un tempo che fu, senza mai occuparsi a fondo di questo presente sfuggente e impalpabile, presi come siamo ad avere il posto in prima fila con scritto “riservato”.
Così mi chiedo, prendendo spunto da Müsil: meglio la recensione di una grande firma su un giornale nazionale o la presenza di sette spettatori nuovi? Ed uso il numero sette in tutta la sua valenza simbolica.
Una delle risposte possibili, facili e immediate è quella della naturale convivenza di entrambe le cose. Quindi ben venga il critico così come il nuovo spettatore, dove con l’aggettivo “nuovo” si intenda semplicemente il non “adatto ai lavori”. Ma per far questo non basta proporre spettacoli che escano dai luoghi teatrali e invadano piazze, bar o strade, perché questi si esauriranno al loro scadere, lasciando – solo in rari casi – piccoli semi che, con troppa facilità, moriranno o saranno inghiottiti da voraci uccelli.
Anche a patto che sopravvivano e riescano a germogliare, chi si occuperà poi di concimare e innaffiare queste piantine fragili, facendo sì che crescano, si irrobustiscano fino a formare piccole aree verdi?
L’evento (rassegna, festival, notte blu che sia…) è un fuoco di artificio straordinario e rumoroso, che “tutti” vedono e ammirano, pronti tuttavia al mattino seguente a pensare ad altro.
Ciò che serve è semmai qualcuno che abbia la voglia e il tempo di andare nel bosco, a raccogliere legna, accatastarla in modo ordinato e occuparsi di tenere acceso un piccolo fuoco che scaldi e raccolga attorno a sé persone.