Il progetto “Come devi immaginarmi” di Emilia Romagna Teatro accoglie un nuovo allestimento pasoliniano, riflessione sull’oggi tra passato e presente, tra padri e figli sempre attuali
Dopo aver assistito alla messa in scena di “Calderon” di Fabio Condemi e “Pilade” di Giorgina Pi, siamo tornati a Bologna con curiosità per la riproposta di “Affabulazione”, la tragedia di Pier Paolo Pasolini composta di otto episodi in versi liberi, un prologo e un epilogo qui diretta da Marco Lorenzi, regista della compagnia Il Mulino di Amleto.
Tutti e tre gli spettacoli sono inseriti nell’ambito del suggestivo progetto “Come devi immaginarmi”, ideato da Valter Malosti e Giovanni Agosti per festeggiare i 100 anni della nascita di Pasolini: nel progetto è stato chiesto a una nuova generazione di registi di proporre allestimenti delle sei opere scritte per il teatro dal grande intellettuale, nativo di Bologna ma friulano d’adozione, che ha illuminato di sé la cultura italiana di gran parte del secolo scorso.
“Affabulazione” venne messo in scena per la prima volta il 30 gennaio 1976 al “Cabaret Voltaire” di Torino della Cooperativa Teatro Proposta, con la regia di Beppe Navello. Celebre è rimasto poi l’allestimento del 1977 di Vittorio Gassman con il figlio Alessandro al Teatro Tenda di Roma, con le scene di Gabriele Di Stefano e le musiche di Fiorenzo Carpi.
La tragedia pasoliniana, alla luce dell’analisi della psiche umana proposta da Freud, si configura come una parodia di quella sofoclea, con la presenza del tragediografo greco nel continuo confronto tra un padre (Danilo Nigrelli) e un figlio (Riccardo Niceforo). Il desiderio del padre è quello di possedere il figlio per ritrovare una giovinezza ormai perduta, con la sua infinita volontà di potere, che si scontra con il caparbio rifiuto del figlio e la sua volontà di essere libero da ogni costrizione, a cui fa anche da contraltare la presenza della madre (Irene Ivaldi).
Alla fine degli otto episodi il padre, dopo aver spiato il figlio durante un suo incontro amoroso, lo ucciderà, come Edipo uccise Laio, come Cronos fece altrettanto con i propri figli, cosciente dello scandalo che quest’azione porta con sé.
Vedremo quindi il padre, dopo una lunga reclusione, diventare uno straccione che vive la sua vita ai margini, cercando di risolvere il mistero-enigma della sua condizione che, come in una narrazione, deve essere ricordata e rappresentata.
Nello stesso tempo, come accade in tutto l’immaginario di Pasolini, l’opera diventa anche una crudele analisi della tanto odiata borghesia, simbolo del potere che tutto ingloba e tutto disintegra.
L’allestimento di Lorenzi vive sul continuo confronto della parola con il teatro, che deve necessariamente vincere, essendo il luogo deputato dall’autore del testo per esprimere il suo pensiero, e che quindi ci accoglie. “La realtà non può essere detta, solo rappresentata” viene infatti asserito più volte nel testo.
Per questo il regista romano, torinese d’adozione, realizza uno spettacolo che, pur partendo dalle ossessioni cariche di parole del padre, ogni volta cerca di trasformarle visivamente in immagini che entrano profondamente nella materia, carica di suggestioni, che Pasolini suggerisce, sviscerandone tutti i disincanti e i significati sottesi, le critiche ai sistemi e alle religioni che ci opprimono, oggi come ieri.
Qua e là Lorenzi sparge a larghe mani riferimenti al cinema pasoliniano, al ballo dei giovani ragazzi di “Uccellacci e uccellini”, al padre che si muove nudo nel deserto di “Teorema”, allo struggente Vivaldi di “Mamma Roma”.
Lo spettacolo si muove così tra sogno e realtà, in un’atmosfera che si esplicita su diversi piani che di volta in volta si svelano, lasciando trasparire alla fine diverse porte che gli attori e lo spettatore possono attraversare.
I fatti reali si mescolano a quelli simbolici, creando un sogno alternativo a quello avuto dal padre all’inizio della tragedia, e che si congiungerà con l’affabulazione finale del povero vecchio alla stazione dei treni, che non troverà altro da rovine intorno a lui, in un giro vorticoso che, ritornando indietro, non avrà mai fine.
E’ un sogno colmo di rimandi, di presagi illusori, in cui i componenti della famiglia diventano agnelli pronti per essere sacrificati, all’interno di un mondo da cui la parola speranza è stata bandita; un mondo dove non sono più i figli ad uccidere i padri ma viceversa.
Così lo spettacolo si muove sapientemente in un continuo riverbero tra passato e presente, dove è lo stesso Pasolini a prendere le vesti di Sofocle (Barbara Mazzi), ambedue portatori della medesima profezia che vede il potere, oggi, rendere cieca un’umanità inconsapevole delle sue iniquità (ad un certo punto i fari accecano la platea per alcuni momenti), e ieri, invece, estirpare gli occhi di Edipo, padre di Eteocle e Polinice, che per sete di comando si daranno vicendevolmente la morte.
In tal modo questa versione di “Affabulazione” riesce a restituirci vividamente e in modo convincente e profondo il teatro pasoliniano, sempre ostico da proporre in scena per una sua presunta e pesante immobilità.
Lorenzi riesce invece ad inserirlo pienamente nel sentire contemporaneo, anche per merito degli interpreti, a cominciare da Danilo Nigrelli, sempre in scena, pronto a restituirci tutta l’angoscia prorompente di un mondo in cui non si riconosce più, senza poi intravvederne un altro diverso che dovrà per forza arrivare.
Marco Lorenzi, nel tuo allestimento Sofocle è Pasolini ed è donna. Cos’hanno in comune per te nel loro essere profetici?
Comincio con una citazione del testo di Pasolini: “Quanti eroi son stati preavvertiti dai profeti! / Ma sempre inutilmente”. E queste sono proprio le parole che PPP mette in bocca all’Ombra di Sofocle nel finale dell’episodio VII. Come vedi, è Pasolini stesso a suggerirci una similitudine tra se stesso e il “suo” Sofocle. Cosa intendo? Intendo dire che in “Affabulazione”, Sofocle non è solo il drammaturgo/padre della tragedia greca, che scrive Edipo consegnandoci una forma definitiva ad un mito fondativo della coscienza occidentale. Ma anche che, nel fare questo, Sofocle si è posto come un profeta inascoltato di quella che sarà poi la catena ininterrotta di relazioni padre/figlio fondate sul conflitto e sull’assassinio l’uno dell’altro. Il tutto per ottenere il possesso/potere.
Nel mito di Edipo tale possesso è simbolizzato da Giocasta, la madre e moglie. Ma è chiaro che dietro al desiderio di possesso sessuale su Giocasta si cela un desiderio di potere più ampio. E’ come se all’interno di questo triangolo mitico si celasse già la previsione di tutte le relazioni che inesorabilmente reggeranno la nostra civiltà fino al capitalismo contemporaneo. Fino al “discorso del capitalismo” (Lacan). Ed ecco che torniamo quindi a Pasolini. Che vede in Sofocle un profeta inascoltato. E penso che, nel momento in cui scrive “Affabulazione”, anche lui si sentisse esattamente nello stesso modo rispetto ad una società di cui denunciava la famosa “mutazione antropologica”: un profeta inascoltato, come tutti i profeti di sventura.
Sembra infatti che il destino di tutti i “profeti di sventura” sia quello di rimanere inascoltati.
La sua immagine si è quindi sovrapposta a quella dell’ironico Sofocle del testo, che cerca di mettere in guardia il Padre dagli eventi che lo aspettano, ma che è consapevole della vanità. Tanto più perché gli eventi di cui parla sono già accaduti, il seme è già stato gettato. E l’uomo non riuscirà mai ad andare oltre la sua “vecchia, maledetta abitudine al possesso”.
E perché hai pensato a una donna?
La scelta di farlo interpretare da una attrice e non da un attore è dovuta al fatto che la lingua teatrale di Pasolini ci porta dentro un mondo apparentemente naturalistico, ma che continuamente ci ricorda di non esserlo. Quindi, con la nostra dramaturg Laura Olivi, sentivamo il bisogno di fare uno scarto di straniamento rispetto all’immagine mimetica di Pasolini. Da qui l’idea di farlo interpretare ad una attrice con doti molto particolari, che rimanesse sempre sottilmente sul filo dell’ambiguità. Cercando di raggiungere un equilibrio tra la citazione di PPP ma anche la libertà di autonomia rispetto alla mimesi più evidente. Ho trovato questa strada più interessante e viva rispetto a qualsiasi tentativo maggiormente mimetico, che però avrebbe rinchiuso l’interpretazione in una sola cosa. Sicuramente più noiosa…
Cosa ti ha interessato maggiormente in “Affabulazione”?
Grazie ad un lavoro certosino sulla parola e sull’analisi del teatro di Pasolini, credo siamo arrivati a leggere in “Affabulazione” qualcosa di inedito e potente. Questa gigantesca sfida teatrale per me, oggi, ci parla di un’“epoca” (la nostra) già morta ma che non accetta di morire. E che di fronte alla possibilità dell’arrivo di un “futuro del tutto imprevedibile” vive un’angoscia totale.
Vedo in “Affabulazione” un sogno angoscioso (forse sarebbe meglio dire un incubo?), un viaggio labirintico nella coscienza della classe borghese nel 1966, che oggi, invece, si trasforma in un viaggio nella coscienza di tutti noi.
“Affabulazione” è un Edipo Re che si mescola con il mito di Cronos mentre racconta di tutti i padri che si ritrovano a mangiare i propri figli per paura di perdere il potere, il possesso. E alla fine si ritrovano ridicoli mendicanti che balbettano frasi sconnesse in una stazione ferroviaria in preda ai fantasmi del loro passato, nel deserto della loro coscienza.
Sono partito dall’intuizione confermata dall’analisi del testo di Pasolini, che “Affabulazione” non si muove in modo lineare su un percorso cronologico chiaro. Al contrario la sua drammaturgia è circolare, l’ultima scena è la chiave di accesso al sogno iniziale del Padre. Solo così ci è possibile capire che il piano di realtà del testo non è la villa in cui si svolge gran parte della vicenda, ma l’ultimo scenario: la stazione ferroviaria.
Tutto il resto è un ricordo, un’allucinazione, una sconsolata ricostruzione, una messinscena del passato… un’affabulazione appunto.
Ho scoperto così che tutto diventava più chiaro, che Pasolini ha disseminato nella sua scrittura poetica e meravigliosa una serie di indizi per poter ricostruire questo percorso all’incontrario. Che una luce c’era e poteva essere seguita fino alla fine.
In questo modo la tragedia di Pasolini è diventata nella nostra lettura un thriller crudele, a tratti noir, perturbante e surreale. E ci è stato possibile anche amplificare tutta la vena grottesca e di parodia che Pasolini tanto amava, e che spesso viene ignorata nelle messinscene dei suoi testi.
Grazie a tutto questo è stato possibile costruire con libertà e creatività un immaginario attraversato da agnelli antropomorfi come contrappunto alla famiglia originale del testo, mischiare piani di presente e passato con un montaggio spaziale sovrapposto, sostituire l’ombra di Sofocle originale con l’ombra di Pasolini, rendendolo simbolo dolente di tutti i profeti non ascoltati della storia umana.
Così ho scoperto come il teatro di Pasolini potesse essere un gigantesco urlo verso il nostro contemporaneo, attuale, potente e rappresentabile. La sua grande libertà espressiva è diventata la mia grande libertà espressiva, ed ecco che è caduto quel mito di irrappresentabilità che circonda il suo teatro. E’ diventato vivo e necessario.
Credo che sarò grato per un bel pezzo a Valter Malosti per aver avuto la fiducia di affidarmi questa sfida. Così come sono immensamente grato a tutto lo splendido gruppo di artisti e artiste (cast e collaboratori) che mi hanno accompagnato in questo instancabile viaggio di conoscenza, inventandolo insieme giorno dopo giorno.
La borghesia di allora, tanto vituperata da PPP, oggi è diversa?
La borghesia per PPP non era una classe economica. Ma piuttosto un modo di interpretare il mondo. E questo modo di interpretare il mondo si fonda sul “possedere o essere posseduti”. Insomma, torniamo a quello che prima chiamavo “discorso del capitalismo” citando Lacan. Cosa è cambiato oggi rispetto al 1966/67? Semplicemente che la trasformazione antropologica tanto temuta da PPP si è realizzata completamente. E quindi non esiste più una classe borghese che si contrappone ad un sottoproletariato urbano o a un paese rurale. Siamo tutti una gigantesca classe borghese. Siamo tutti borghesia, e l’ansia di “possedere o essere posseduti” ci riguarda tutti. Per questo ti dicevo che quello che nel 1966 era un viaggio labirintico nella coscienza della classe borghese; oggi, invece, si trasforma in un viaggio nella coscienza di tutti noi.
Che significato hanno le numerose e diverse interruzioni che hai inserito nello spettacolo?
Ah… bella domanda. In realtà la risposta è molto semplice. “Affabulazione” ha la struttura di un sogno, di una messinscena di un passato già accaduto, un’allucinazione. Perciò ho cercato di inventare un modo che potesse riconsegnare teatralmente le cesure e le fratture con cui la memoria ci riconsegna fatti che abbiamo già vissuto, che non ricordiamo bene, o che non vogliamo ricordare bene perché rappresentano un passato innominabile.
I sogni sono fatti così: passiamo da uno scenario ad un altro senza un chiaro nesso di causa / effetto, ma anche la nostra memoria è piana di buchi ed ellissi. Borges diceva che la nostra memoria è un romanzo. Ecco, al cinema sarebbe stato facile, grazie al montaggio, restituire questo principi di sfasamento. A teatro dovevamo inventare un codice. E queste numerose e rumorose interruzioni ci hanno permesso di generare questo senso di spaesamento. In cui si trova anche il personaggio del Padre. Devo dire che, anche in questo, è stato fondamentale analizzare con cura ogni singolo verso del testo di PPP. Nelle vene più nascoste della sua scrittura si nascondono già questi suggerimenti.
I padri di allora, i figli di allora: sono diversi da quelli di oggi?
Sicuramente c’è una differenza tra i padri e i figli di oggi rispetto a quelli di fine anni ’60. Penso sia fisiologico e naturale. Molte cose si sono sclerotizzate verso il peggio, altre invece hanno acquistato un respiro e una migliore possibilità di luce. Ma tutto questo vale per quanto riguarda una dimensione più legata alla cronaca e al rapporto tra singoli individui. Se invece ci spostiamo ad un livello più simbolico per parlare dell’idea di padre e dell’idea di figlio, credo che le dinamiche esplorate e così ben rappresentate da Pasolini riescano a raccontare senza problemi i padri di allora e i padri di oggi, i figli di allora e i figli di oggi. D’altronde la grande intensità con cui – mi sembra – il pubblico segue il nostro spettacolo dimostra una possibilità di riconoscimento ancora potentissimo.
AFFABULAZIONE
di Pier Paolo Pasolini
regia Marco Lorenzi
con Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi, Roberta Lanave, Barbara Mazzi, Riccardo Niceforo
dramaturg Laura Olivi
scenografia e costumi Gregorio Zurla
disegno luci Giulia Pastore
disegno sonoro Massimiliano Bressan
assistente alla regia Yuri D’Agostino
suggeritrice Federica Gisonno
scene realizzate dal Laboratorio di Scenotecnica di ERT
responsabile del Laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Sergio Puzzo, Veronica Sbrancia, Davide Lago, Leandro Spadola
scenografi decoratori Ludovica Sitti con Benedetta Monetti, Sarah Menichini, Tiziano Barone
calco e maschere Alessandra Faienza, Ilaria Ariemme
direttore tecnico Massimo Gianaroli
direttore di scena Mauro Fronzi
macchinista Alfonso Pintabuono
elettricista Salvatore Pulpito
fonico Massimiliano Bressan
fonico di palcoscenico Francesco Vacca
sarte Elena Dal Pozzo / Anna Vecchi
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
in collaborazione con AMA Factory e Il Mulino di Amleto
si ringrazia TPE – Teatro Piemonte Europa
foto di scena Giuseppe Distefano
video Vladmir Bertozzi
nell’ambito di “Come devi immaginarmi” dedicato a Progetto Pasolini
durata: 1h 40′
Visto a Bologna, Teatro Arena del Sole, il 20 maggio 2023
Prima assoluta