Insegnare: lasciare cioè dei segni indelebili nella mente e nel cuore di qualcun altro, per permettergli di comunicare meglio con chi gli sta vicino, consentendogli di comprendere più in profondità la realtà che lo circonda. Chi, come noi, lo ha fatto per venticinque anni a scuola e lo continua a fare ancora attraverso il teatro, ha svolto uno dei mestieri più belli del mondo per la portata sociale e morale. Un mestiere che potremmo definire una missione, quella dell’insegnamento, affidata in gran parte alla mansione del maestro o del professore, che resta una figura fondamentale della società democratica, che deve tendere, come insegna la nostra Costituzione, a offrire ad ognuno gli stessi diritti e possibilità.
Per questo, assistere ad uno spettacolo che, non pedissequamente ma con grande profondità emotiva, ripercorre l’avventura umana e sociale di Alberto Manzi, che per noi, nel nostro mestiere di educatore, è stato sempre un modello, ci ha riempito di ricordi e al contempo di commozione, perché quello che abbiamo visto in scena è come se avesse parlato di noi che siamo stati maestri e nel contempo alunni e allievi.
La creazione del Tib Teatro di Belluno, su drammaturgia di Daniela Nicosia, “Alberto Manzi: storia di un maestro”, che abbiamo visto a Milano al Festival Segnali, ripercorre la biografia del “Maestro d’Italia” dal primo dopoguerra, nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma, all’insegnamento per adulti in tv, con la celebre trasmissione degli anni ‘60 “Non è mai troppo tardi”, fino agli anni ‘70 in Sud America con gli Indios. E tutto lo spettacolo sembra partire proprio da quel carcere, dove l’esperienza di Manzi è nata, riprodotta attraverso la minimalista scenografia di Bruno Soriato, punteggiata dalle immagini di Mirto Baliani, con quel continuo sbattere delle cancellate di ferro che alludono al mondo di segregazione a cui il protagonista si è sempre rivolto.
Lo spettacolo vive e si connatura con il continuo confronto tra il maestro, interpretato dall’ottimo Marco Continanza, che gli assomiglia perfino, e il suo allievo Mollica (Massimiliano Di Corato), un piccolo pregiudicato, ladro soprattutto per fame, in un’Italia del dopoguerra piena di miseria, dove tutti si inventavano qualcosa per sopravvivere.
Manzi conosce Mollica al carcere minorile di Roma nel ’46, quando Alberto ha appena 26 anni. Al Gabelli – Istituto di Correzione e Pena per minorenni in cui erano reclusi una novantina di ragazzi dai 7 ai 17 anni – non voleva andarci nessuno a insegnare, anche perché, per regolamento, erano vietati penne, matite e carta. Eppure Manzi ci va lo stesso, perché sa che è giusto e doveroso farlo.
Attraverso il continuo rapporto tra i due e il cambiamento che man mano avvertiamo in Mollica, veniamo a conoscere il metodo di insegnamento di Manzi, basato soprattutto sull’educare al piacere del pensiero, al trasmettere il sapere attraverso l’interrogarsi sulle cose, conoscere la vita cominciando dalle piccole cose, esprimendo senza timore le proprie opinioni, superando insieme – con semplicità e in modo giocoso – le difficoltà a cui ci si trovava davanti.
Mollica impara così pian piano a fidarsi del maestro, esprimendo grande felicità quando saprà scrivere il proprio nome, capire l’importanza dei punti e delle virgole, le diversità delle cose, e perché no, anche osservando le nuvole, o capire come sia bello gettarsi sotto la pioggia, scoprendo che “perfino” le donne sono intelligenti, e come sappiamo più intelligenti dei maschi.
Nel contempo Manzi rompe le consuetudini: arrivano le matite, si aboliscono le sbarre, si va tutti al mare senza guardie e si edita persino un giornalino, “La tradotta”.
Tuttavia ad un certo punto Manzi, con grande disappunto dell’allievo, lascerà il Gabelli per insegnare all’università, da dove però uscirà subito, deluso, per fare il maestro elementare.
Veniamo così a sapere che il nostro maestro è stato anche sospeso dall’insegnamento per un mese a causa del rifiuto di mettere i voti: perché la voglia di imparare va conquistata, non imposta con la paura di un brutto voto!
Il rapporto con Mollica continua, è lui che lo aiuta a stampare sulle pagelle con un timbro, sì proprio con un timbro, il suo motto più famoso: “Fa quel che può, quel che non può non fa”.
E poi c’è il grande momento della televisione. La Rai cercava un maestro, e “la direttrice della mia scuola voleva liberarsi di me, così mi mandò al provino”. Lui, con umiltà e passione, divenne il “Maestro d’Italia” in un Paese in cui c’erano ancora due milioni di persone che, per firmare, facevano una croce perché non sapevano leggere e scrivere, rendendosi così deboli: deboli gli emigranti, deboli le donne e i vecchi che restavano al Paese.
“Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone” osservava giustamente, in quegli anni, un altro maestro come lui osteggiato in quel di Barbiana.
Rivedendo oggi le immagini di quelle trasmissioni ci commuovono ancora i suoi atteggiamenti verso gli alunni che aveva in trasmissione, che verso i migliaia che non vedeva ma c’erano; ci commuoviamo per quella sua voce che, senza mai un momento di superiorità, accompagnava tutti verso un sapere fondamentale per la propria crescita umana.
“E ricordatevi che se qualcuno, o qualcosa, vorrà distruggere la vostra libertà, la vostra generosità, la vostra intelligenza, io sono qui, pronto a lottare con voi, pronto a riprendere il cammino insieme, perché voi siete parte di me, e io di voi.
Lo spettacolo del Tib, senza retorica alcuna, riesce a trasmettere benissimo, a noi e ai ragazzi a cui è rivolto, tutta quella umanità e tutta quella volontà di essere al servizio dei più deboli, dei più indifesi.
Alberto Manzi: storia di un maestro
produzione Tib Teatro Soc. Coop. Sociale Onlus
autore Daniela Nicosia
regia Daniela Nicosia
cast Marco Continanza e Massimiliano Di Corato
scene Bruno Soriato
disegno luci e suono Paolo Pellicciari
immagini video Mirto Baliani
foto di scena Alberto Bogo
Visto a Milano, Teatro Fontana, il 29 giugno 2021
Festival Segnali