Alcesti: il dramma intimistico di Civica nel ‘qui e ora’ di vita, morte e teatro

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Le tre protagoniste dell'Alcesti (photo: Duccio Burberi)|Deflorian e Piseddu nell'Alcesti (photo: Duccio Burberi)
Le tre protagoniste dell'Alcesti (photo: Duccio Burberi)
Le tre protagoniste dell’Alcesti (photo: Duccio Burberi)

Assume i tratti di un dramma raccolto e intimo, l’“Alcesti” di Euripide nella versione firmata da Massimiliano Civica. Si ha l’impressione di assistere ad un rituale sacro, accessibile solo a pochi eletti, officiato dalle tre attrici protagoniste – le brave Daria Deflorian, Monica Demuru e Monica Piseddu – con gesti calibrati e lunghe pause.

Gli spettatori “ammessi” ad ogni recita sono infatti solo venti, disposti su una fila di sedie intorno a una piccola pedana. Siamo al centro del Semiottagono dell’ex carcere delle Murate, luogo inquietante e suggestivo, cupo ma non claustrofobico: l’occhio può perdersi nel seguire la fuga verso l’alto dei ballatoi, sui quali in passato si affacciavano le celle.
A partire da un’opera che ha diviso nel passato i filologi, che l’hanno ritenuta ora tragedia, ora dramma satiresco per il suo lieto fine, Civica utilizza e rielabora diversi elementi della tragedia greca (come le amate maschere, il coro, l’uso di uno stesso interprete per più personaggi) per offrirci una lettura acuta, precisa ed asciutta del testo euripideo, di cui il regista ha curato anche adattamento e traduzione.

L’esemplare storia di Alcesti, moglie virtuosa che sceglie di sacrificarsi per salvare l’amato Admeto dalla morte, ci mette a confronto con alcune domande fondamentali, senza tempo – e probabilmente senza risposta -, sulla morte, sul senso della vita e, soprattutto, sul “per chi” si vive, come ci aveva anticipato lo stesso Civica nell’intervista pre-debutto.

La riflessione appare paradossalmente tanto più attuale se si pensa che gli antichi non avevano, dell’aldilà, la visione consolatoria che il Cristianesimo avrebbe successivamente introdotto nella cultura occidentale: la vita, per quanto breve e fragile, appare allora il bene supremo, un rapido lampo di felicità di cui godere il più possibile, finché si è in tempo (concezione efficacemente espressa, nel testo, dai personaggi di Ercole e di Ferete). Un “carpe diem” che non può suonare estraneo a chi vive la contraddittorietà e la precarietà del presente, e che si lega anche alla caducità del teatro, «mortale» perché «accade in un luogo, davanti ad alcune persone, per una sera e quando è finito lo è per sempre – si legge nelle note di regia – Il teatro non è contemporaneo, perché è il solo luogo dove la morte non fa finta di non esserci. Oscenità tutta del palcoscenico, quella di ricordarci che siamo mortali e non abbiamo infinite possibilità».

Un teatro, quello di Massimiliano Civica, che si mostra da sempre al pubblico nella sua essenzialità: il gesto e la parola trovano qui il massimo risalto in un impianto scenico estremamente sobrio. E in questa particolare occasione Civica parte proprio dallo spazio per creare la regia, uno spazio altamente simbolico ma senza ‘appigli teatrali’, utilizzato per ‘pulire’ lo sguardo dello spettatore.

Due attrici – Daria Deflorian e Monica Piseddu – danno vita a tutti i personaggi della tragedia, ognuno ben definito da una maschera (che dal teatro classico vira al Nō giapponese), da un colore evocativo, da qualche accessorio distintivo (una cintura, un bastone…), dal tono della voce o dall’uso del dialetto (impiegato per caratterizzare le due figure dei servi, ed ecco così il rimando all’immaginario della Commedia dell’Arte).

Deflorian e Piseddu nell'Alcesti (photo: Duccio Burberi)
Deflorian e Piseddu nell’Alcesti (photo: Duccio Burberi)

La recitazione delle due intense interpreti si basa su una gestualità parca, e proprio per questo espressiva (particolarmente toccante la stretta con cui Admeto, la Deflorian, cerca di trattenere Alcesti, la Piseddu) e su una vocalità apparentemente monocorde e dimessa, ma in realtà sottilmente variata, in grado di restituire la profondità di pensieri ed emozioni.
Tanto maggior rilievo acquistano così i rari momenti di ira – come l’acceso scontro tra Admeto e il padre Ferete – e quelli di lieve ironia.

Il coro, interpretato dalla cantante-attrice Monica Demuru, si muove ai margini della scena – delimitata dalla pedana – e adempie così la sua funzione di mediatore fra attori e spettatori, ora interagendo con i protagonisti, ora commentando l’azione. La sua voce è capace di spaziare dagli accenti intimistici della prosa alle note di un canto straziante, che in alcuni momenti trova delle sonorità quasi “strumentali”, vicine a quelle del corno.
Suggestiva la sovrapposizione tra il lamento funebre del coro e l’allegra canzonetta intonata da un inconsapevole Ercole: sintesi perfetta del contrasto tra lutto e spensieratezza descritto da Euripide.

Interessante, infine, notare come la compositiva di attori del teatro greco venga qui al tempo stesso confermata e ribaltata: pochi interpreti per molti personaggi, ma in questo caso con una compagnia di sole donne anziché di soli uomini.

“Alcesti”, in scena al Semiottagono fino al 26 ottobre e per cui non è prevista successiva tournée, è uno spettacolo lento, meditativo, accurato; a un primo impatto può forse trasmettere un senso di eccessiva freddezza, ma solo perché richiede allo spettatore lo sforzo di immergersi in una dimensione distaccata dal quotidiano. Uno spazio più difficile da “abitare”, ma certamente più favorevole alla riflessione sugli interrogativi fondamentali che un testo tanto antico eppure così vicino continua a proporre.

ALCESTI
di Euripide
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con: Daria Deflorian, Monica Demuru, Monica Piseddu
e con Silvia Franco
costumi: Daniela Salernitano
maschere: Andrea Cavarra
luci: Gianni Staropoli
traduzione e adattamento: Massimiliano Civica
produzione: Fondazione Pontedera Teatro e Atto Due

durata: 1h 10′
applausi del pubblico: 1′ 50”

Visto a Firenze, Semiottagono dell’ex carcere delle Murate, l’8 ottobre 2014

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