Lezione di storia. Intervista a Daniele Timpano – 2^ parte

Daniele Timpano in Aldo Morto
Daniele Timpano in Aldo Morto (photo: Andrea Chesi per Klp)

In che senso “Aldo Morto” si riallaccia con “Ecce Robot”?
Se in qualche modo, pensando a “Dux in scatola” e a “Risorgimento pop”, si può parlare di una sorta di non dichiarata trilogia sulla storia italiana (la storia di un Paese nato morto e mai risorto vista attraverso i suoi cadaveri eccellenti), nel caso di “Ecce robot” si può parlare di un volontario e consapevole dittico.
“Aldo morto” è una sorta di controcampo di “Ecce robot”. Là parlavo di qualcosa che conoscevo, di cui avevo esperienza, di quello che per un povero cittadino italiano nato negli anni ’70 e cresciuto negli anni ’80 non poteva che essere il desolante (e ciononostante entusiasmante) orizzonte formativo: la televisione.
Aldo Moro e le Brigate Rosse venivano esplicitamente chiamati in causa in “Ecce robot”, ma solo per esser liquidati – provocatoriamente – come molto meno interessanti e significativi di una qualunque puntata di un qualunque cartone animato giapponese: Goldrake, Mazinga o Candy Candy era lo stesso. Non a caso ad un certo punto dichiaravo, sconsolato e insieme fiero, quella che per me e per la mia generazione è stata una sconcertante, ma ovvia, evidenza: “Ignaro di trovarmi nel bel mezzo degli anni di piombo, vivevo l’infanzia tra robot d’acciaio”.

Là volevo parlare degli anni ’70, in fondo, a chi aveva meno di quarant’anni, a quelli della mia generazione, tentando di creare in sala una frattura tra spettatori sopra e sotto i quarant’anni, tra chi aveva condiviso un immaginario, e in qualche modo ne era stato anche formato e deformato, e chi proprio non capiva nemmeno di cosa si stesse parlando, e soprattutto perché.
Qui tento di parlare invece a tutti, e soprattutto a quelli sopra i 40 anni, di cose di cui non sento il diritto di parlare, pur sentendone l’urgenza; partendo dal punto di vista dello stesso “personaggio” (che poi ero io) che prendeva la parola in “Ecce robot”, qui parlo non della mia esperienza ma dell’esperienza altrui, da questa distanza siderale ed incolmabile, per interrogare loro e me su tutto questo. Mi interessa non tanto la storia del sequestro, ma aprire una serie di ragionamenti, farli aprire agli spettatori, intendo.

Daniele Timpano in Aldo Morto
Daniele Timpano in Aldo Morto (photo: Andrea Chesi per Klp)

Spesso ti confronti con il corpo di qualcuno: perché?
Il tema della morte mi interessa molto sia rispetto alla storia con la S maiuscola (lo storico Sergio Luzzatto, da qualche parte, mi pare abbia scritto che la storia d’Italia potrebbe essere benissimo raccontata come una tragedia corporale: Mussolini, Matteotti, Pasolini, Moro…). Parlo spesso di corpi morti, di cadaveri, ma in realtà io un corpo morto non l’ho mai visto. Non ho mai visto una bara aperta. Non sono mai stato in una camera ardente. Non sono mai entrato in un obitorio. Un morto “dal vivo” non l’ho visto mai, non l’ho toccato mai, non l’ho odorato mai. C’è come un’ossessione ed un senso di rimozione molto forte. Con Elvira Frosini, mia compagna di vita e di lavoro, vorremmo realizzare prima o poi uno spettacolo sugli zombi, cioè su quello stato tra la vita e la morte, che da un punto di vista metaforico rappresenta un po’ la nostra condizione di vita sospesa, incapace di risorgere sul serio.

Che tipo di narrazione è la tua?
Non mi sono mai posto il problema della narrazione. Almeno se con questo termine ti stai riferendo al cosiddetto “teatro di narrazione” (i vari Baliani, Curino, Paolini o i più giovani Enia e Celestini). Tra l’altro, il fatto di essere solo in scena, all’inizio, non è stata nemmeno una scelta: stavamo preparando uno spettacolo in due, poi litigammo ed io portai a termine lo spettacolo da solo. Quel tipo di teatro mi interessa, certo, e posso anche averne assunto o parodiato dei cliché, soprattutto in “Dux in scatola”, ma in fin dei conti si tratta veramente di un demi-monde cui mi sento estraneo, se non ostile, come linguaggio e come contenuti. Piuttosto, come modalità di stare in scena, mi interessa l’assolo in generale, la solitudine dell’attore-autore in scena che si prende la responsabilità di quello che sta facendo e dicendo. E qui le mie esperienze di spettatore che mi hanno interessato sono moltissime, dove persino la fisicità di un Celentano o il modo di scrivere e cantare di un Claudio Lolli o di un Gianfranco Manfredi (entrambi cantautori che cito esplicitamente in “Aldo morto”), i dischi di Caparezza e i saggi degli storici (i vari Mack Smith, Isnenghi, Luzzatto, Ryall, Gotor che scrivono e pensano benissimo), i romanzi di Eco, i video su you tube, i post su facebook o la stilizzazione di fumetti e cartoni animati giapponesi, hanno influenzato di più il mio linguaggio teatrale di quanto lo abbiano fatto i lavori di un Celestini o di un Perrotta. Occasioni di confronto e crescita, direi allargamento, del mio linguaggio scenico sono stati il progressivo confronto con colleghi più o meno coetanei che stimo particolarmente, con i quali sento di condividere uno stesso “panorama”: come Andrea Cosentino, Gaetano Ventriglia, Antonio Tagliarini e Daria Deflorian, la stessa Elvira e le altre compagnie del Consorzio Ubusettete (Teatro Forsennato e Olivieri Ravelli Teatro, ma anche il Circo Bordeaux, che ora nel Consorzio non c’è più), e Lucia Calamaro.
Ho cercato di imparare osservando gli altri, naturalmente, amando gli altri, un po’ come tutti, per poi tentare di creare un mio stile, una geografia dello spazio legata al mio corpo, con una gestualità che isola ed identifica gli oggetti e le persone di cui voglio esprimere la loro estraneità rispetto al mio racconto, deformando gesti quotidiani, utilizzando tutta la capacità che ha il mio corpo di essere incapace e scomposto in funzione espressiva consapevole.

Daniele Timpano in Aldo Morto
Daniele Timpano in Aldo Morto (photo: Andrea Chesi per Klp)

Quando hai iniziato questo lavoro?
Questo lavoro/non-lavoro sul mio corpo e sulla mia presenza ha cominciato timidamente a definirsi tra il 2002 e il 2004 nello spettacolo “Caccia ‘L drago”, trovando, credo, una sua maturazione progressiva di spettacolo in spettacolo. Come nella mia drammaturgia, che cerca di mettere in dubbio ogni cosa vi è, mi pare nel mio modo di parlare al pubblico, o anche solo di muovermi in pubblico, un sempre maggiore fastidio per ogni forma codificata. Di spettacolo in spettacolo sicuramente questo lavoro sul corpo, e via via anche sullo spazio, è andato sviluppandosi in maniera consapevole. Esperienze cardine sono stati due spettacoli-cesura fondamentali, e cioè “Sì l’ammore no” (che ha segnato l’inizio di un percorso di collaborazione con Elvira, la cui formazione viene dalla danza e il cui lavoro ha portato all’interno del mio tutta una serie di sensibilità e di istanze che prima non c’erano) e “Risorgimento pop”, dove ho avuto occasione di lavorare con tre compagni di scena (lo spettacolo ha avuto nel tempo tre cast differenti) assolutamente diversi fra loro per età ed esperienze: Marco Andreoli (col quale ho anche scritto lo spettacolo), Gaetano Ventriglia e Valerio Malorni. Questo mi ha costretto a porre in discussione molte cose e a mettermi il più possibile in ascolto, nonostante le mie iniziali fortissime resistenze.

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