Tanta danza a Teatri di Vetro 13. Tanta e diversa, al punto da suggerire la costruzione di un piccolo percorso italiano, attraverso almeno tre generazioni. Proviamoci.
Si era parlato, nel precedente racconto dal festival (raccontando i primi spettacoli visti a Teatri di Vetro 2019), delle parole in scena, quando servivano a spiegare lo stato del processo, e quando invece erano transcodificazione, ecfrasi, in particolare nel laborioso progetto di Paola Bianchi.
In “Clorofilla”, di Alessandra Cristiani, le parole sono invece una scintilla che innesca il processo, e consistono nei versi di Marcello Sambati. Il lavoro coreografico ce le restituisce come un elemento estetico, pittorico, da erbario a colori scintillanti, per parlare del quale occorre lasciarsi aprire gli occhi, come per la prima volta, su uno spazio mai esistito.
Nella pratica, lo spettatore si trova ai lati di un lungo corridoio bianchissimo, reso ancora più algido dalle luci ghiaccio di Gianni Staropoli, in fondo al quale c’è una porta. All’ingresso del pubblico, a cui prima dell’ingresso è stato mostrato il progetto fotografico di Daniele Vita sul corpo della danzatrice, Cristiani è già in scena, nuda, rannicchiata, annodata su sé stessa in un impressionante pugno di carne.
Al partire del sonoro – suoni naturali, di bosco – come un boccio che lentamente si scolla, o un paguro che tenta la rena protendendo le chele, la danzatrice esce da quella forma e, lasciando che di tanto in tanto un alito di vento scuota in un frullo una mano o un piede, strisciando, rotolando sul piano candido, passa dall’essere superficie indifferenziata, meramente organica, al ritrovare la propria qualità di entità organizzata, nella dettagliata, esposta fisionomia del corpo.
Quindi, infilati dei pantaloni neri, sostituito il color ghiaccio delle luci dall’alto con quattro tagli di lampade agli ioduri metallici – cangianti nel loro laborioso processo di riscaldamento -, inizia qualcosa che sa di combattimento. È un livello di evoluzione, di coscienza ulteriore, e il corpo è scagliato sul palco come si fa per rispondere ad un attacco – vengono in mente le baruffe che scompigliano le foglie secche del sottobosco, i piccoli animali che si tendono agguati, l’improvviso balzo del roditore o la picchiata del rapace.
Alessandra Cristiani gioca dentro e fuori il suo mondo-tappeto, prendendo la rincorsa per gli attacchi, entrando e uscendo da temi brevi di poche battute, selvatici, di danza guerriera o simbolica e propiziatoria. Finché arriva il finale, in un alveo “altro”, in fondo, dentro la porta fino a quel momento rimasta chiusa: lei è lì, immersa in una luce verde, in un tempo che sembra statico, tra il fioccare di piume; e quasi riapre il ciclo della vita, fuoriuscendo da una bambagia uterina.
Di una generazione successiva è Carlo Massari (classe 1984), presente a Teatri di Vetro con “Beast without beauty”, debuttato nel 2018 al Festival Oriente Occidente.
Il lavoro è esplicito, indirizzato in linea diretta al pubblico, tutto estroflesso, efficace. In scena ci sono tre corpi, un giovane Hitler (Massari, che indossa un paio di inequivocabili baffetti), un ariano dalla parrucca gialla leccata (Emanuele Rosa), una disperata vecchia diva alcolizzata con parrucca bionda (Giuseppina Randi, una Marlene all’ultima spiaggia). Mente quest’ultima smaltisce la sbornia seduta sul fondo, tra i due uomini fin da subito si stabilisce una relazione ambigua, fatta di corteggiamenti, esplosioni sensuali, formalismi, ipocrisie e tentativi di sopraffazione; fatta di imitazione (nei lunghi unisoni, nel costume quasi identico) e di lotta esplicita per raggiungere la supremazia e accaparrarsi quel microfono, posto in ribalta, dal quale sembra dipendere molto.
I due contendenti si sparano, si ammazzano (anche a forza di ripetuti casqué), si spingono in un vorticare attorno al palco in una via di mezzo tra marcia militare e sadico tango della morte, brindano insieme, ma poi versano lo spumante a terra e vi scivolano sopra a lungo, cigolando con le scarpe sulla gomma del palco.
Nel finale, la vecchia diva attraversa trasversalmente il palco sfilando i cadaveri dei due contendenti e cantando a cappella la ballata antimilitarista “Where have all the flowers gone”.
L’intero spettacolo è impregnato di un atletismo evidente, teatrale, tutto teso alla ricerca della trovata fisica, e lavora nell’aggiunta, nell’estremizzazione grottesca, in un’atmosfera che sa di espressionismo, sempre a segno sul pubblico, come si diceva, che ripaga con generose risate e lunghi applausi.
Di tutt’altro segno il lavoro di Giuseppe Vincent Giampino – e scendiamo adesso alla generazione dei ventenni –, già semifinalista al Premio Scenario, che esplora lo spazio vuoto tra i corpi, la sottrazione di contatto, in un contesto non narrativo ma psicologico, si direbbe.
Inserito all’interno del progetto Grand Prix, che mette in relazione generazioni diverse di danzatori, il primo studio di “VIRTUAL²” è un work in progress che fa dell’asciuttezza, della mancanza completa di ostentazione, di una sorta di malinconia muta e disillusa la sua caratteristica precipua.
I due danzatori, lo stesso Giampino e Cristina Kristal Rizzo, entrano in scena in modo quasi casuale, si direbbe alla chetichella, senza segnare discontinuità tra il fuori e il dentro, sulla trascurabile presenza acustica, a un volume ridotto, di musica techno. Parte poi, e va in loop per diverse volte, con tanto di pausa tra fine e inizio, una breve sonata scarlattiana. Se le traiettorie dei due danzatori consuonano nel segno ironico, nella mancanza di orpelli, nella sintassi originale e nella citazione leggera degli stilemi del classico (ma è un gioco intelligente, che dura poco), spazialmente i loro corpi non si incontrano mai, dialogano soprattutto con quel vuoto, a volte davvero esiguo, che li separa. Almeno fino alla terza parte (nella seconda si erano rifugiati sotto un tappeto di plastica catarifrangente, che facevano scricchiolare con le dita), quando in un buio totale, ripresi dalla videocamera di un telefono e rimandati, nei pochi lacerti visibili, in uno schermo a lato ribalta, riducono lo spazio tra i loro corpi e provano ancor più silenziosamente a trovare direzioni comuni.
Quella di Giampino è una danza già organizzata in una voce personale, di evidente livello tecnico, ma posta in scena con una sorta di affascinante modestia, una danza in scarpe da ginnastica, scabra, che non sa di oleografia, casomai di un autorevole, sofferto, schizzo a penna.
Teatri di Vetro continua ancora oggi, domenica, e chiuderà proprio con Giampino e Massari (porteranno rispettivamente “Sisters” e “FF” sui palchi del Teatro India di Roma), insieme a un altro giovane da tenere d’occhio: Riccando Guratti, con “Intuition 1”.