Intervisto Alessandro Bergonzoni, Premio Ubu come miglior attore della passata stagione, un’ora prima del suo spettacolo “Nel”, ospite ad aprile di Linea d’Ombra – Festival Culture Giovani di Salerno. Stranamente, però, è lui a farmi la prima domanda: “Da quanto tempo non ti confessi?”. “Da tanto, padre”, gli rispondo ridendo. Comincia così un’intervista dagli argomenti tanto astratti quanto fondamentali: il teatro, la cultura, la politica…
Che cos’è, per te, la comicità?
“Fare comicità” significa “fare cultura”: raccontare di noi stessi, della società, osservare ed esagerare per parlare di un’altra realtà che, comunque, ci coinvolge.
Affronteresti mai progetti sperimentali? Mi viene in mente, ad esempio, lo “spettacolo-concerto Majakovskij” di Carmelo Bene e Sylvano Bussotti (che poi diventò anche una versione televisiva dal titolo “Quattro modi diversi di morire in versi”), in cui si combinavano musica e recitazione.
Va beh’, quella era la musica della musica della musica! La musica della voce di Bene, della sua mente, del suo corpo e la musica di Bussotti. Alcuni musicisti e scrittori d’opera mi propongono da anni esperimenti del genere. Fino ad ora ho collaborato con Piero Pelù, ho fatto una canzone per un gruppo rockabilly ma sicuramente sono molto più vicino a proposte che un po’ ricordano gli esperimenti di Bene. In questo momento non voglio affrontare progetti del genere, però ci cascherò.
Quindi apprezzi molto Carmelo Bene.
Moltissimo. Lui non lo sa, si vergognerebbe, però lo dico lo stesso.
Quali sono gli altri tuoi riferimenti culturali, oltre a lui?
Sicuramente Groucho Marx. Poi Totò. Finalmente hanno scoperto che Totò non giocava solo con le parole e non era soltanto uno che storpiava i vocaboli. Voi (riferito ai napoletani, ndr) avete sempre creduto in lui, ma certa critica l’ha sempre visto sotto un’ottica diversa. Mi piace molto anche Peppe Lanzetta, che è una persona che adoro e di cui apprezzo il lavoro. Woody Allen, invece, mi piace sempre meno.
E Buster Keaton?
Mi hanno detto parecchie volte che lo ricordo. Sostengono che la mia parlata abbia la stessa forza espressiva del suo volto. Non l’ho mai amato troppo, ma lo trovo comunque molto bravo. Apprezzo i Monty Python e un certo tipo di cinema d’autore.
Oggi parlavo con un’amica del significato della lettura per i ragazzi di oggi. Siamo arrivati alla conclusione che la lettura è uno stato d’animo. Per te è così? E quanto influisce la lettura nella tua vita?
La lettura è uno schiudente: apre e ti sorprende, ti fa capire cosa c’è dentro l’uomo. E il lettore vuole essere sorpreso. Sono però sempre preoccupato della differenza tra un gran lettore e una persona che approfondisce e sa. Ci sono grandi lettori che sono ottimi uomini di cultura ma che non hanno curiosità, a cui manca una potenza interiore, un indotto. Poi ci sono i pessimi lettori, che hanno una cultura bassa, eppure possono avere un’energia interiore molto forte. Per un attore la lettura sul palco è una pulsione, una forza espressiva che, forse, solo la radio riesce a trasmettere. Ovviamente, ci sono delle radio da denunciare come le peggiori televisioni, così come ci sono dei lettori, sul palco, da denunciare come i peggiori attori.
La lettura, sia essa sul palco oppure a casa, deve essere abbandono.
Esattamente. Entri in uno sciamanico andar via che ti accompagna altrove; è una specie di mantra e può portarti all’annullamento.
Terminiamo qui o andiamo avanti?
Fammi l’ultima domanda, per la lode.
Una domanda politica. Un uomo di governo come Silvio Berlusconi potrebbe risolvere i problemi dell’Italia, siano essi politici, economici o sociali?
Berlusconi ha fatto ammalare l’Italia. Credo che abbia un problema patologico, non si tratta di arroganza, superbia o quant’altro: un ‘grandeur’ con un senso del divino ma senza il divino. A me piacerebbe sapere cosa scatta in una persona che, convinta o non convinta di quel che dice o fa, vede determinate cose, quelle che io chiamo le visioni ma che, nel suo caso, potremmo chiamare tele-visioni. Com’è possibile che si possa governare in questo modo? Com’è possibile che si decida dentro, internamente, di mandare alla devastazione un paese? É un problema antropologico, filosofico, che antecede il problema politico. C’è qualcosa che viene ben prima di un concetto politico-amministrativo. Quello viene dopo, eppure i giornali, le inchieste, di quest’aspetto non ne parlano mai.
“Quindi apprezzi molto Carmelo Bene.
Moltissimo. Lui non lo sa, si vergognerebbe.”
Non c’è alcun dubbio.
Da quanti altri improbabili epigoni dovremo ancora sentire che il povero Bene è “tra i suoi miti”?