Dopo una prima fase al WEGIL con le sezioni Cratere e Reciprocity, parte la linea più “teatrale” di Short Theatre, principalmente nella sede della Pelanda, nell’ex Mattatoio di Testaccio. Tra il grido di Cherish Menzo, che mette in crisi gli stereotipi della donna nera nell’hip hop a cavallo tra i due secoli, e il paragrafo didascalico dell’Emilio roussoviano di Alexia Sarantopoulou, sperimentato sul corpo nudo di Ondina Quadri, i calibri e i pennini del cartografo Alessandro Carboni scricchiolano per “This voice This time”, titolo dell’edizione 2021 di Short, la prima con Piersandra Di Matteo alla direzione artistica, per quest’anno insieme a Francesca Corona, in partenza per il Festival d’Automne.
Al centro del palco del Teatro 1 c’è un fascio di fili d’acciaio, lunghi almeno tre metri, stesi parallelamente a circa cinque centimetri di distanza uno dall’altro. Sforziamo gli occhi: dovrebbero essere 43. Formano una specie di reticolato di soli elementi orizzontali, un pentagramma replicato. Alle due estremità ciascuno dei fili ha dei piombini.
Entrano in scena Ana Luisa Novais Gomes e Loredana Tarnovschi. Indossano costumi a stampe diverse, cucite insieme – il programma di sala cita il Carnevale, ma quei colori sembrano africani, anche se il taglio è corto e le gambe sono nude da sopra il ginocchio. Pure il volto è coperto da una maschera, che è insieme il burqa che le donne afghane sono corse a recuperare in queste settimane e un mostro, un satiro cornuto.
Il ritmo del loro muoversi è tutto interno, niente lo guida da fuori: la musica di Danilo Casti è un gorgoglio grave, poi si muterà in suono d’onde, con un vocìo che immaginiamo di marinai; le luci non subiscono variazioni di rilievo, tutto un bianco copre il palco, appena addolcito verso gli estremi destro e sinistro da un paio di proiettori più caldi.
A quel ritmo interno le performer si inchinano ai due lati della cordiera e muovono i fili uno per uno, facendoli scorrere verso l’esterno, sfalsati, ricomponendo, con una lentezza e una sapienza quasi arcane, una forma nuova: il rettangolo è divenuto un parallelogramma, la prospettiva enfatizza la profondità a beneficio di chi guarda.
Poi di nuovo, riprende il lavorio delle donne mascherate, e poi ancora, e l’oggetto in scena muta, pur rimanendo rigorosamente bidimensionale finché, rotazione dopo rotazione, si torna alla configurazione iniziale.
Ora i tempi paiono maturi per mettere in discussione il principio dell’equidistanza tra i fili: vengono sollevati e raccolti in gruppi più densi, poi addirittura, con le due performer ai due capi di uno stesso, ruotati, spostati altrove nel palco, finché, dopo un accurato studio della loro natura (loro stanno accucciate alla turca, li sfiorano con le dita, quasi a testarne la qualità, li pizzicano) sono sollevati da terra a svelare un terzo piano dell’esistenza, quello verticale.
Ma la scoperta maggiore è un’altra: quei fili non sono di acciaio, perché si piegano docilmente, solo i piombini ai loro capi si oppongono, come se volessero mantenerli in tensione, puntando in basso. Sono di lana, flessibili, si raccolgono nella mani delle performer che ne fanno reti da pesca, poi li lasciano curvare, li aggomitolano da un lato, pazientemente danno a quella matassa una forma, ed è la silhouette stilizzata di un uomo.
La tentazione è quella di lasciarsi andare all’enigmistica delle corrispondenze e credere di poter esaurire in un’enorme allegoria, in cui collegare significanti e referenti, “The Angular Distance of a Celestial Body” di Alessandro Carboni.
Ma non è così. Quel reticolato non è solo un telaio ancestrale sul quale le dita sapienti delle donne operano per tradizione inalterata, quei fili che traggono dal fascio per ricomporne, uno dopo l’altro, in una nuova forma non simboleggiano le vite dei figli, proiettati nel mondo secondo geometrie prefissate, né quel ritornare alla configurazione iniziale del grande telaio è il destino eternamente uguale di ogni donna. E così quella scoperta della materia vera dei fili, una materia docile e flessibile, quel tirarli a sé con un gesto come di rete da pesca non simboleggia semplicemente la fuga dal recinto delle convenzioni di genere, l’esperimento di una donna pescatrice, come un uomo.
Il discorso generale dell’opera di Carboni, pur mantenendo un’evidente attrazione per una primordialità che tutto sembra poter contenere, e per una scansione drammaturgica che invoglia a una ricostruzione narrativa, sembra aspirare a un piano più generale.
Il suo andamento asciutto, come in mezzo a un deserto, tra la matematica e la mistica, riguarda non solo la vita ma la scrittura e la cornice della vita, lo stravolgimento delle materie e delle geometrie (delle cartografie, suggerirebbe il percorso di ricerca e il ricco atlante visuale presente sul sito dell’artista).
Elaborare un percorso nell’interpretazione del reale, da una rete ortogonale data a una tridimensionalità più attenta, e nell’essere al mondo; dalla struttura di un movimento imposto dall’alto, simmetrico, ripetitivo, coreografato, a una più libera esplorazione sotto costa, che sveli la vera materia delle cose e sappia curvarle, che percorra le linee non segmentabili dei litorali, le matasse, gli ingorghi, e provi a raccontarli con voci adeguate.
The Angular Distance of a Celestial Body
progetto, coreografia e impianto visivo Alessandro Carboni
con Ana Luisa Novais Gomes e Loredana Tarnovschi
costumi DEM
musica Danilo Casti
produzione Formati Sensibili 2018
con il contributo di TIR Danza e il supporto di Città delle 100 Scale Festival; ATER – Circuito Regionale Multidisciplinare; Santarcangelo Dei Teatri; H(abita)T – Rete di Spazi per la Danza / Sementerie Artistiche; L’Arboreto – Teatro Dimora Mondaino
durata: 50′
Visto a Roma, Pelanda, l’8 settembre 2021