Alfredino di Effetto Morgana. L’Italia in fondo a un pozzo

Photo: Nicolò Degli'Incerti Tocci
Photo: Nicolò Degli'Incerti Tocci

Il 10 giugno del 1981, quando Alfredino Rampi finì dentro a un pozzo artesiano nella campagna di Vermicino, tutta l’Italia sprofondò con lui.
“Alfredino, l’Italia in fondo a un pozzo”, produzione MaMiMò, è il toccante monologo teatrale di Effetto Morgana, scritto e interpretato da Fabio Banfo con la regia di Serena Piazza, che ricorda quella tragedia quarant’anni dopo.
I rutilanti anni Ottanta – quelli della musica a palla nelle discoteche, della Milano da bere e delle tv commerciali – ci fiondavano verso un benessere di cartone. Il decennio era iniziato con presagi sinistri: le stragi di Ustica e Bologna, il terremoto in Irpinia, l’Affare P2, l’attentato al papa, il rapimento e l’assassinio di Roberto Peci per opera delle Brigate Rosse. Ma il dramma di Alfredino colpì più di tutti. Riguardava un bimbo di appena sei anni.
La mia generazione di ragazzini più o meno suoi coetanei quella morte non poteva accettarla. Noi cresciuti a nutella, Orzo bimbo e figurine Panini. Noi e i fumetti: l’Uomo Ragno, Superman, Batman e Capitan America. Noi che il Bene trionfava sempre e il Male era punito da una giustizia superiore. Noi intrepidi grazie ai manga giapponesi: Jeeg Robot cuore d’acciaio, Goldrake pioggia di fuoco, Mazinga pugni atomici.

Se gli eroi piovuti dallo spazio sapevano polverizzare i mostri delle galassie, per Alfredino non poteva finir male. Invece quel giorno precipitammo dentro un incubo. Ne uscimmo con nuove verità. Capimmo che non sempre le storie hanno un lieto fine. Scoprimmo l’Italia fanfarona che si arrangia con mezzi di fortuna e sbatte contro la realtà.
Il giorno maledetto di Vermicino si allungò fino a durare sessanta ore. La diretta televisiva fu un avvitarsi di speranze e delusioni, soluzioni grossolane e fallimenti. Fino al tragico epilogo, la mattina del 13 giugno.
Agli albori di un voyeurismo che sarebbe dilagato negli anni a seguire, calati dentro un reality show crudele, trovammo normale che 10mila persone (vigili del fuoco, tecnici, giornalisti, geologi, speleologi, nani, contorsionisti, curiosi di ogni risma, persino venditori ambulanti) si accalcassero ai bordi del pozzo.

La narrazione di Banfo è dosata, eppure tiene con il fiato sospeso. Non pigia il tasto del dolore. Si sfronda d’ogni residuo voyeuristico. Biasima la sfilza di errori commessi, ma riconosce la buona fede di chi li commise. Restituisce gli ultraquarantenni ai loro ricordi. Concede a chi non era nato un’immaginazione vivace.

La regia di Serena Piazza è sobria. Bastano una seggiolina pieghevole, un microfono calato dall’alto con una fune, un tunnel verticale nel buio creato dalla luce, a evocare quella tragedia in modo simbolico e spirituale, ma anche concreto e carnale, da avvertire quasi lo sdrucciolio del fango e l’odore della terra.

Parola dopo parola, si ricompongono gli episodi di una vicenda che rivoluzionò la nostra rappresentazione degli eroi: non più i prodigi in grado di volare, ma uomini ordinari, capaci semplicemente di parlare (come Nando Broglio, il pompiere che incoraggiava Alfredino) o angeli lillipuziani senza ali che si calavano dentro un cunicolo di 80 metri: come il tipografo Licheri, speleologo improvvisato, filantropo per vocazione, Angelo di nome e di fatto. Gli eroi sono persone semplici: di grande non hanno che il cuore, e possono cadere.

Guidato da Serena Piazza, Banfo ci incolla alla vicenda lavorando per sottrazione. Senza voli pindarici riempie la scena, sconfinando nel teatro d’ombre, in quello di figura e nel mimo con le mani. La colonna sonora (le sigle dei tg Rai, quelle di Mazinga e Goldrake, e Brava brava Maria Rosa ogni cosa sai far tu, le note di Arvo Pärt, Morricone e Sigur Ros) restituisce la soggettiva dei bimbi che eravamo. “Un malato di cuore” di Fabrizio De André attinge invece dall’“Antologia di Spoon River” a evocare la cardiopatia di un bambino nel pozzo e una vita fragile, troppo presto spezzata.

Temevamo un paradosso prima d’entrare in sala: che proprio con uno spettacolo si intendesse stigmatizzare la spettacolarizzazione di un’agonia. Ma in questo lavoro troviamo solo un bisogno d’umana solidarietà, e l’elaborazione di un lutto all’epoca esorbitante per noi.
Per Fabio Banfo, nato nel 1975 come Alfredino, l’identificazione è ancora più forte. È una traccia nella memoria e una ferita più profonda da rimarginare. È un sasso nel cuore. Pur con qualche perplessità sulla rappresentazione narcisistica e presenzialista dell’allora capo dello stato Pertini, riconosciamo l’onestà intellettuale e la valenza catartica di questo monologo, coinvolgente e carico d’umanità.
In scena ancora oggi all’Elfo Puccini di Milano.

ALFREDINO. L’Italia in fondo a un pozzo
uno spettacolo di Effetto Morgana
drammaturgia di Fabio Banfo
da un’idea di Fabio Banfo e Serena Piazza
regia di Serena Piazza
con Fabio Banfo
produzione Centro Teatrale MaMiMò

durata: 1h 15’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Milano, Teatro Elfo Puccini, il 21 giugno 2021

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