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Aliados. A Romaeuropa l’oblio del reale

Aliados
Aliados
Lionel Peintre (Pinochet) e Nora Petrocenko (Thatcher). Photo: Philippe Stirnweiss
“Prima il luogo o prima il corpo?” si chiede il sopravvissuto che irrompe in scena all’inizio di “Aliados”, la pièce multimediale creata dal compositore franco-argentino Sebastian Rivas con la collaborazione del librettista Esteban Buch, e presentata in data unica per il Romaeuropa festival.

“Entrambi, al contempo” si risponde da solo la recluta (l’attore-musicista Richard Dubelski).
È finito suo malgrado nel “teatro delle operazioni”, ribalta della guerra che fu, o della “ripresa” che è in scena in quel momento presente, testimone riemerso dal controverso episodio dell’affondamento strategico da parte di un sommergibile britannico dell’incrociatore argentino Belgrano, con perdita ancora imprecisa di vite umane.

Il 26 marzo del 1999 l’ex premier britannico Margaret Thatcher si reca a trovare Augusto Pinochet. L’ex dittatore cileno è agli arresti domiciliari a Londra per un mandato di cattura internazionale. I due anziani leader sono “alleati” perché legati da un’amicizia storica, nata dopo il golpe militare del 1973 e consolidatasi nell’82 durante la guerra delle Falkland, nel quale il Cile diede appoggio logistico e strategico alla Gran Bretagna contro il nemico argentino.

Si apre un sipario nero, siamo spettatori di un set televisivo in fase di registrazione.
Luce bianca, fissa, senza ombre, immutabile. Campo visivo diviso a metà tra attori in scena (parte più bassa) e schermo bianco di videoproiezione (la metà più alta): una cornice tagliata in due, sotto il “reale”, con i corpi quasi sempre di spalle al pubblico, sopra i loro primi piani ingigantiti, i dettagli della scena, del loro corpo; in mezzo, come burattinai e veri performer al pari degli attori-cantanti-personaggi, due cameraman vestiti di nero, lì a muoversi indisturbati con lo sguardo delle loro macchine a fare da gelido controcampo e a mostrarci, in digitale, quello che non possiamo vedere.

L’ensemble musicale è celato dietro un tulle, verso il fondo scena (del direttore d’orchestra si vede la gestualità di comando attraverso quattro piccoli schermi posti ai lati e nei quali sono soprattutto le mani bianche o guantate a farsi notare).
La regia del ‘live video’ è a vista, a sinistra del palco, a rimarcare l’impianto metalinguistico di tutta la scena.
Un collage di centinaia di scatti fotografici e documenti (sui quali indugiano non di rado le macchine da presa) rimandano ai giorni della guerra, facendo da tappeto alle operazioni teatrali.
Ognuno è abbigliato elegantemente, con il suo abito in tinta unita, dalle scarpe fin su al collo (giallo Pinochet, verde la Thatcher, blu l’aiutante di campo del cileno, rosa l’infermiera che assiste l’inglese, nero per operatori e musicisti).

La vicenda delle Falkland riemerge frammentata e scomposta. Se ne capisce di più dai documenti fotografici ripresi dalle telecamere che dal racconto-ricordo che riescono a farne i due protagonisti. Il tempo ne ha annebbiato la memoria, che sono ormai quelle caduche e franate di due vecchi leader in pensione, destituiti da quello che ritenevano entrambi il ruolo della loro vita. Tra tenebrose ipocrisie (“Sono convinta – afferma la Thatcher rivolgendosi a Pinochet – che è stato lei a portare la democrazia in Cile”), cerimoniali stanchi e un loro mondo ovattato in bilico su sé stesso, nell’autocompiacimento del regalarsi l’un l’altra le proprie memorie in volume rilegato, nella vertigine borghese dell’ora del thé.

Il primo incontro è dunque con l’intimità fragile del Potere (nella cura del dettaglio ricorda l’insuperabile trilogia di Sokurov), quella che segna lo stato di sbandamento psichico di chi si vede sottratto il proprio gioco, quella di chi non ha più nessuno da persuadere né da comandare. Attori smantellati che non rappresentano più l’elettorato, che percepiscono e denotano d’essere in qualche modo eterodiretti, guidati nelle loro mosse da assistenti esterni al loro volere (se i cameraman si muovono senza impedimenti, i due attori invece sono sempre istradati nelle mosse dai rispettivi accompagnatori – assistenti alla regia e coreografi dei loro leader?).
 
La regia di Antoine Gindt ricorda i più celebri lavori anti-operistici di Mauricio Kagel e “Il Grand Macabre” di Ligeti, consegnandoci un’opera in “tempo reale”, come annunciato da sottotitolo, teatro musicale in inglese e spagnolo che si fa e si disfa mentre gli spettatori sono lì a veder quel che succede.
La ritrasmissione in diretta del segnale video che parte dalle telecamere in scena ci fa infatti allontanare dall’idea di riproposizione di un repertorio già confezionato, e accade che i veri performer in azione siano i “tecnici”, i cameraman, mentre gli altri corpi attorali sono lì come pedine di una coreografia prestabilita, destituiti in parte dal dover personificare naturalisticamente i due capi di Stato, così spesso interrotti e sincopati nei loro gesti, nel loro canto, nei loro recitativi balbettanti o paranoici.
L’uomo politico non c’è più, sconfitto dalla vecchiaia e dal logoramento della solitudine; l’attore è smantellato di autorità, impossibilitato alla verosimiglianza; il performer è il tecnico che compie in piena libertà la sua operazione e crea.

A tal riguardo vale la pena citare a mo’ di cortocircuito, per rispettare in pieno lo spregiudicato spirito compositivo e centrifugo di “Aliados”, quel che dice Antonio Rezza: “Il politico venderebbe sua madre pur di essere un attore, l’attore serve il suo personaggio e quindi vorrebbe essere un performer per non farsi da maggiordomo, il performer è colui che non deve interpretare, non deve calarsi in niente perché quello che fa è semplicemente azione”.

Farsa fredda del ricordo, guidata da una partitura musicale che mescola e alterna tango e fiati sincopati, cueca e violino, ascolto in “presa diretta” e rielaborazione elettronica dei suoni, “Aliados” fugge in tutti i modi la ricostruzione degli eventi, ne sta ai margini, gioca con i personaggi, fa suo il contratto di irrealtà tipico del canto lirico con ironica e massima autoconsapevolezza del dispositivo, nel riconoscimento esplicito delle operazioni e dei meccanismi di creazione e di rimanipolazione mediata e mediatica del reale.
”Aliados” rigetta qualsiasi empatia, fa inciampare il patetismo insito in un certo repertorio lirico attraverso un montaggio interdisciplinare che procede per impennate grottesche e brusche interruzioni, privilegiando lo scontro disarmonico tra materiali. E ci lascia un presentimento: la Storia, forse, si fa dando le spalle a chi ti guarda.

ALIADOS
musica: Sebastian Rivas
libretto: Esteban Buch
regista: Antoine Gindt
film direction: Philippe Béziat
direttore musicale: Léo Warynski
collaborazione al direttore di palco: Élodie Brémaud
assistente alla direzione: Live Movie Julien Ravoux
stage design: Elise Capdenat
disegno luci: Daniel Levy
costumi: Fanny Brouste
make up: Corrine Blot
con: Lady Margaret Thatcher (mezzo) Nora Petročenko, General Augusto Pinochet (baritono) Lionel Peintre, L’Infermiera (soprano) Mélanie Boisvert, L’Aiutante di campo (baritono) Thill Mantero, La Recluta (attore-musicista) Richard Dubelski
Ensemble Multilatérale: Trombone Mathieu Adam Clarinetto (bass cl) Benoît Savin Violino Sara Chenal Chitarra elettrica Kobe Van Cauwenberghe Percussioni Elisa Humanes Piano Lise Baudouin
tecnologia digitale: Ircam Robin Meier
cameramen: Thomas Gillot e Ludovic Plourde
Collaborazione alla regia Elodie Brémaud
regia video live: Julien Ravoux
scenografia: Elise Capdenat
coproduzione: T&M-Paris, Ircam-Centre Pompidou, Réseau Varèse
con il supporto di: Fonds de Création Lyrique / SACD, Théâtre de Gennevilliers/CDNCC, Festival Musica Strasbourg, Théâtre de Saint-Quentin-en- Yvelines/Scène Nationale e Ozango productions

durata: 1h 25′
applausi del pubblico: 4′

Visto a Roma, Teatro Palladium, l’11 ottobre 2013
Prima nazionale


 

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