
Alice non c’è. E non lo sa. Ha la testa altrove. O un pensiero fisso e irraggiungibile.
Da una piccola casa illuminata dall’interno, magicamente, il prologo di questo spettacolo (finalista al Premio Scenario 2013) ci regala due epifanie: l’apparizione di Ilaria Dalle Donne, spigolosa e candida, scolpita nella carne e negli abiti in forma di novella Alice, fuori misura e fuori contesto; e poi l’irrompere tanto silenzioso quanto sorprendente d’un coniglio bianco.
Arrischiandoci in provocazione, potremmo domandarci se il coniglio non avrebbe potuto essere, in questo caso, il (performer) protagonista: imprevedibile, indeterminato, culmine animale della presenza scenica che incanta perché deraglia dal mestiere attorale, che colpisce per l’esattezza del gesto, per l’intensità dello sguardo.
Invece rimane lì, come figura-sorpresa-meraviglia che si intromette di tanto in tanto mossa dalla fame per poi sparire nel buio, lasciando il campo, alla fine, al suo simile già senza vita, pelle imbalsamata portata a mo’ di zainetto dalla protagonista e poi esibita al pubblico: tra Ascensione e Pietà, una Madonna con coniglio dai tratti sacrileghi, in cui la morte c’è non come trofeo ma come compagno di avventure.
Resta invece la performer, quella Ilaria Dalle Donne che avevamo già conosciuto in alcuni spettacoli di Babilonia Teatri e che dal 2012 ha scelto una nuova strada autonoma, stavolta in scena a metà tra l’animale e la macchina, catapultata in un ring, un quadrato delimitato da luci e stativi, in abiti e movenze da boxeur, dallo sguardo di pavida inquietudine, bisognosa di doping per la sua anima persa.
Che non fa che allenarsi, prepararsi a perpetuare la dismisura. Dilatare i tempi delle prove e mancare il centro. Tra smisurati intenti ideali da ingrandire o da ridurre sulla scena. Inscenare grandezze per dimenticare piccolezze? O viceversa?
Lottare contro l’ombra di sé stessi, prendere a pugni, invano, i convenuti. Ci si prepara in attesa che la sfida cominci. Ma non comincia, perché Alice è pertinentemente disadatta(ta). Non trova la luce. Si affanna a farsi eroina ultrapop, in solitaria parata, con gli abiti marcati e la musica a gran volume che ti fanno sentire meno sola, ma senza vittoria, senza meta, senza testa. Salta la corda ma non taglia la corda. Rimane in scena.
L’Alice disambientata raccontata da Gianni Celati nell’eccezionale raccolta di interventi del ’77, da cui Ilaria Dalle Donne è partita, è un soggetto collettivo, un’ipotesi di palingenesi rischiosa, coraggiosa, al lato dell’ufficialità, generata tra le strade e l’immaginazione, lì dove si lottava contro “la disciplina del lavoro, l’ordine gerarchico, il sacrificio, la patria, gli interessi generali”, in nome “dei nostri bisogni, il corpo, la sessualità, la voglia di dormire la mattina, il desiderio, la liberazione dal lavoro”.
Una figura di movimento, in movimento, alle prese con un corpo (il proprio, quello della società) pieno di buchi, nei quali insinuarsi, affondare, glissare. Per aprire varchi di senso e di immaginario non pre-scritti.
Ma qui pare mancare il nonsense, non c’è nessuno scarto da una certa convenzione performativa, e la struttura è forse troppo chiara per smantellare il nostro equilibrio e permetterci di disambientarci ancora (non come avremmo voluto, ma come non avremmo mai immaginato). Dov’è qui quello spirito di sovversione ed attraversamento? Dov’è che si tenta di cadere nel buco?
Una barra a led scandisce i passaggi, fino al settimo round, al settimo cielo, cantando l’illusione disperata, disincantata, reiterata, di un Paradiso sempre eventuale. Il paese delle meraviglie forse è sempre dietro l’angolo. Ma i buchi non hanno angoli.
ALICE DISAMBIENTATA
di e con Ilaria Dalle Donne
con la collaborazione di Residenza artistica Anagoor
con il sostegno di Viva Opera Circus Teatro dell’Angelo
produzione: OperaEstate Festival Bassano, La Piccionaia
durata: 35′
applausi del pubblico: 1′
Visto a Roma, Teatro Due, il 29 marzo 2015
A Roma! A Roma!