«Amleto l’ho sempre vissuto come quel particolare stato di coscienza in cui ci si distacca da un mondo e si entra in un altro. Avviene in chiunque, in ognuno»
(Leo de Berardinis, dalle note di “Totò principe di Danimarca”)
Che cosa accadrebbe se un principe (oltre)mondano come Amleto scegliesse di chiudersi a chiave nella propria cameretta, senza volerne uscire mai più?
A provare a spiegarcelo è Vico Quarto Mazzini, ensemble fondato da Michele Altamura e Gabriele Paolocà nel 2010 dopo la conclusione del percorso triennale di formazione presso la Civica Accademia d’arte drammatica “Nico Pepe” di Udine. Attentissima, specie negli ultimi anni, allo studio dei classici (dai “Fratelli Karamazov” ad Ibsen, passando per i radiodrammi e i “Sei personaggi in cerca d’autore”), la compagnia – tramite sapienti rivisitazioni – ha concentrato la propria «ricerca sul ruolo dell’attore e sulla sua funzione vitale all’interno del contesto teatrale»: l’odorosa pantera di cui vanno alla ricerca è l’attore “pensante”, un performer totale che scriva per la scena, la diriga e infine la abiti.
A Schegge, la rassegna torinese di teatro contemporaneo sostenuta da Cubo Teatro, VQM si presenta con la propria personale indagine sulla moda del deprimersi dei giorni nostri, “Amleto FX” (selezione In-Box 2015 e Premio Direction Under 30 del Teatro Sociale di Gualtieri). Uno spettacolo che parla – recitano le note di regìa – di castrazioni tecnologiche, di cari estinti, dell’attrazione verso la dissoluzione e dell’eco assillante che tutto questo provoca nelle nostre coscienze.
A regalarci qualche dettaglio in più sulla scrittura e sull’opera è il suo autore e interprete, Gabriele Paolocà.
Fare o non fare Amleto? Quando hai capito che la prima era la scelta giusta?
Lo spettacolo è nato quasi quattro anni fa, nel 2014, in un momento molto particolare del mio percorso artistico, in cui sentivo l’esigenza di confrontarmi con me stesso, prendere coscienza dei miei limiti, capire a che punto mi trovavo del mio cammino come attore ma soprattutto come essere umano. La scelta di “Amleto” è stata, in qualche modo, spontanea: con un testo del genere si è praticamente costretti a confrontarsi fin da quando si sceglie di intraprendere la nostra professione. Dalla prima lezione di recitazione al proprio addio alle scene, è una costante, un moto perpetuo, un classico. C’è chi comincia con il principe di Danimarca e chi invece se lo ritrova fra i piedi a fine carriera. Io l’ho incontrato a metà strada e l’ho voluto affrontare, attraversare, per pormi delle domande. Interrogarsi o non interrogarsi (sul testo, su sé stessi…)? Questo è stato il vero dilemma. Ho subito avvertito l’urgenza di avvicinare quell’opera a me, al mio mondo, al mio presente.
E ne hai tratto, diciamo così, una riscrittura contemporanea. Cosa dobbiamo aspettarci: il solito “Hamlet in blue jeans”?
No, assolutamente no. In “Amleto FX” non mancano certo le interpolazioni e le commistioni. Ma siamo lontani da una stucchevole amalgama. Ho scelto i brani dell’“Amleto” che più adoravo, decontestualizzandoli dalla vicenda shakespeariana e inserendoli all’interno della mia storia, facendone un uso per così dire “strumentale”. Il mio Amleto è infatti un uomo, un uomo che solo per comodità chiamiamo così, che riconosciamo come tale. Certo, Shakespeare è presente nel sottofondo, ma si intreccia con la mia penna e con molte altre suggestioni cavate da fatti di costume & società del nostro tempo.
Si è creato così un vero e proprio “minestrone drammaturgico”: il personaggio parla un linguaggio iper-contemporaneo, quotidiano, comune a tutti. Non è un blue jeans: è piuttosto una ferita, uno “squarcio” sull’oggi che ha la presunzione di essere attuale. E non soltanto perché rechi la patina esteriore di qualcosa di noto. Ma perché vuole parlare di noi. Con noi. Questo non è più l’“Amleto”. È un assolo generazionale. Un racconto intimo che attraverso il riso amaro vuole spingere a trovare una soluzione al solito, annoso, banale, scontato ma comunque sempre irrisolto quesito: “Essere o non essere?”.
Insomma, una belle infidèle, la tua. Ma parlare di Amleto non significa soltanto parlare di Shakespeare o di Freud, di playhouse elisabettiane o di complessi parricidi, ma anche di grandi attori nostrani: da Ruggero Ruggeri a Ettore Petrolini, da Memo Benassi a Vittorio Gassman, da Carmelo Bene a Leo de Berardinis. Un’eredità che ogni interprete brama e paventa al tempo stesso di raccogliere.
Certo, il timore di confrontarsi con i “mostri sacri” del nostro teatro è forte. Ma credo, d’altra parte, che anche l’incoscienza sia un valore fondamentale per un attore del XXI secolo.
Il mio lavoro mira ad essere qualcosa di veramente personale, uno spettacolo da cui traspaia un’essenza non connotabile. E forse, stando almeno alla piccola fortuna che ha riscosso in questi anni, ci è riuscito, ha trasformato un’esperienza individuale in avventura universale.
“Amleto FX” non è una virtuosistica sequela di monologhi. È appunto una riscrittura in senso lato: parla di un uomo trincerato nella propria stanza, che non riesce a combattere contro i propri fantasmi psicologici. C’è un presente che non vuole affrontare. Il ragazzo/Amleto si chiude così letteralmente in sé e comunica soltanto per mezzo di una “prigione dorata”, quello schermo luminoso grazie al quale si interfaccia col resto dell’umanità. Il computer è l’unica finestra sul mondo che Amleto mantenga ancora aperta e attraverso cui continui a vomitare messaggi. Qui chatta con i suoi amici – il festaiolo Orazio, la bella Ofelia – come si evince dai familiari tintinnii dei social network che scandiscono le varie fasi di questo dialogo in absentia. Poi chiama su Skype la madre, che nel frattempo si trova al mare, a Forte dei Marmi, in vacanza con Claudio. Anche il padre defunto ha un suo spazio (ma solo sul disco locale): è un genitore effimero, scomparso, nient’altro che un frammento video rinvenuto fortuitamente nella cartella Documenti.
Che siano forse tutte queste presenze/assenze a instillare nell’animo del protagonista quella “moda del deprimersi” cui si accennava prima?
Sì beh, c’è un dolore immenso nel nucleo di quest’opera. Quello di un ragazzo che si trova a confrontarsi per la prima volta nella vita con la morte. Un enorme grido, il suo, a cui non riesce però a dare voce. Da una parte abbiamo questo ragazzo, dall’altra il mondo relazionale dei vivi, che non sa come “comprenderlo”. Vuole farsi da parte e per farlo medita un gesto estremo, che lo liberi per sempre da tutto il marcio della Danimarca: il suicidio.
Brandelli di storia ci aiutano a comprendere il perché del suo intento. Per trovare la forza Amleto invoca tutti i miti del suo (del nostro) tempo, tutti quei personaggi famosi che, in un modo o nell’altro, sono riusciti a porre fine all’assurdo gioco della vita.
Sì, direi che il tema della perdita è sicuramente la chiave di volta. Il non riuscire a sanare la lacerazione che affligge il cuore di Amleto. E di qui il dramma tutto novecentesco dell’incomunicabilità, che non è soltanto incomprensione da parte degli altri, ma anche masochistica pratica dell’autoesclusione, grande tragedia del nostro tempo. Un tempo in cui, pur sembrando tutti apparentemente connessi, si è invece profondamente soli e, come Amleto, chiusi nelle proprie stanze. A chiave.
Lo spettacolo andrà in scena a Torino domenica 13 maggio, alle 21 sul palco del Cecchi Point (via Antonio Cecchi 17). Ma la compagnia tornerà nel capoluogo piemontese anche il 6 e 7 giugno, al Festival delle Colline Torinesi, con “Vieni su Marte”.