Cupo, grottesco, sanguigno, sudato, eccessivo, melodrammatico, sporco, emaciato, crudele, ardente, composto, nero, marcio, rigoroso, sintetico, nuovo, caldo, moderno, chirurgico, sonoro, macabro, sapiente, saporito, ingiusto. Bello, bello, bello.
Per una volta lasciamo che a dire le prime parole sia un giudizio, ancor prima di prendere in mano il bisturi e dare inizio all’autopsia. Maria Grazia Cipriani guida il suo Carretto in un adattamento tra i più felici della più grande tragedia di Shakespeare.
Il principe di Danimarca dà vita alla storia e ai personaggi come fosse un bambino annoiato in un pomeriggio di pioggia: gioca con le bambole, crea e distrugge i personaggi, li rende invincibili o vinti a suo piacimento. La vicenda, adattata alla perfezione da Cipriani, cola dalle immagini chiare e forti con la stessa fluidità del sudore di questo gruppo di straordinari attori. Non si tratta di un libero adattamento, ma di sintesi rigorosa, in cui a ciascun elemento è assegnato il giusto peso.
La sensazione è che il lavoro del Teatro del Carretto punti proprio a questo, a dimostrare che a dar vita a personaggi così complessi come Amleto, Ofelia, Claudio, Gertrude, Polonio, Laerte e via dicendo ci siano impulsi animali talmente primordiali da poter essere intuiti anche da un bambino. La scena e i costumi di Graziano Gregori chiudono tutti i demoni della mente umana nella stessa scatola rossa: follia, amore, morte, valori, disperazione, gelosia, avidità, superbia, sesso, violenza, umorismo, in una parola vita. Ci si ritrova pressati dentro questi pannelli rossi che sono a metà tra le mura imbottite del manicomio e le soffici pareti di tessuti irrorati di sangue. Corriamo senza sosta né respiro, a capofitto giù negli istinti più bassi dell’uomo, in un tunnel dell’orrore in cui ogni movimento ha una risonanza fatale (la bella partitura sonora è di Hubert Westkemper), come a ricordarci che nessuna azione resta senza conseguenze, un concetto chiave di Shakespeare e di “Amleto” in particolare.
Raramente si assiste a un lavoro così pulito. Il gruppo di attori funziona come un organismo, tirato dallo stesso filo che intesse la presenza di tutti i personaggi, in consonanza assoluta. Giandomenico Cupaiuolo è un Amleto sui generis, cinico e beffardo, che lavora sui cliché del gesto grandeattorico per ottenere un mix straniante di posture ottocentesche ed emozioni da teatro povero grotowskiano; Elsa Bossi una Ofelia/Gertrude da mettere i brividi, che strappa lacrime come erbacce moleste, scherzo giocato all’età anagrafica, che muta vertiginosamente con il variare delle espressioni. Il resto degli attori, dal Claudio repellente e muto al demone da fiaba nera che versa il veleno nell’orecchio del re di Danimarca, sono un magma di anime inferocite, che accelera i secondi all’orologio e le pulsazioni al cuore.
Ci vuole coraggio, molto coraggio a sedersi a tavolino per ristudiare questo testo fondamentale. Il Teatro del Carretto fa molto di più. Fracassa quel tavolino e rovescia tutte le suggestioni possibili in scena. La tonalità vermiglia delle pareti resetta la gamma di colore, ci abitua a percezioni differenti, assume gli abiti bianchi come interferenze da cancellare subito, da risucchiare con fasci di luce che appaiono e scompaiono, per lasciare di nuovo il posto a un bagliore diffuso che rende tutti cianotici, sovraesposti. Le parole di cristallo del Bardo si frantumano in gesti tirati allo spasimo, pompano vene e muscoli e traspirano come sudore dai corpi degli attori, ci riempiono le orecchie bombardandoci la coscienza. E c’è un senso nuovo assegnato a quelle riflessioni sulla morte, a quelle chiacchierate di Amleto con il teschio del suo giullare. Un senso sottile, impossibile da rendere a chi non si lasci trascinare in questa “danse macabre”.
AMLETO
da William Shakespeare
adattamento e regia: Maria Grazia Cipriani
produzione: Teatro del Carretto
interpreti: Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi, Giacomo Vezzani, Nicolò Belletti, Giacomo Pecchia, Carlo Gambaro, Jonathan Bertolai
scene e costumi: Graziano Gregori
suono: Hubert Westkemper
luci: Angelo Linzalata
durata: 60′
applausi del pubblico: 3’ 29”
Visto a Roma, Teatro India, il 17 marzo 2010
Prima Nazionale