“Don Carlo” (o, originalmente, “Don Carlos”), musicata sul libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, tratto dall’omonima tragedia di Friedrich Schiller, è anche, forse, dal punto di vista della sua realizzazione, il lavoro del genio di Busseto, che ha avuto le vicissitudini compositive più lunghe ed intricate.
La prima rappresentazione, in cinque atti e in lingua francese, ebbe luogo l’11 marzo 1867 al Théâtre de l’Académie Impériale de Musique di Parigi. In seguito l’opera fu tradotta in italiano da Achille de Lauzières, e rimaneggiata a più riprese nel 1872 e nel 1884, edizione questa in cui Verdi eliminò la prima parte, il famoso atto che si svolgeva nella foresta di Fontainebleau.
Le modifiche al libretto furono messe a punto da Du Locle, e la versione in quattro atti andò in scena al Teatro alla Scala di Milano il 10 gennaio 1884 nella traduzione italiana di Angelo Zanardini.
Due anni dopo Verdi si pentì però del taglio, e l’opera debuttò a Modena il 29 dicembre 1886 in una nuova versione in cinque atti e senza le danze dell’originale francese.
I teatri italiani continuarono però a preferire la versione del 1884 in quattro atti, ed è in questa edizione che il Teatro alla Scala l’ha proposta, riprendendo la messa in scena che aveva aperto la stagione 2008-2009, anche se la foresta di Fontainebleau, con i suoi ricordi, è ben presente nell’allestimento di Stéphane Braunschweig.
L’azione si svolge durante il diciassettesimo secolo alla corte di Filippo II di Spagna, e vede al suo centro il contrasto personale e politico tra il re e il figlio Don Carlo, segretamente innamorato di Elisabetta di Valois, ora diventata regina di Spagna.
Di lui è innamorata, non corrisposta, la Duchessa di Eboli, personaggio dal forte risalto, a cui Verdi concede un’aria di furente, melanconica bellezza (“O Don Fatale”).
Ma l’opera vive anche su altri due contrasti, questa volta del tutto politici, che ben inquadrano i fermenti di quell’epoca: quello impersonato dal Marchese di Posa, amico carissimo di Don Carlo, propulsore di una politica liberale fondata sulle autonomie (specificatamente quella delle Fiandre), che troverà la morte per le sue idee, e Filippo II incarnazione della monarchia assoluta.
Il compendio di tutto questo è l’ulteriore contrasto tra Stato e Chiesa, rappresentato in modo sublime e inventivo da Verdi nel famoso duetto tra due “bassi”, Filippo II e il Grande Inquisitore, mentre sopra tutta l’opera aleggia lo spirito dell’imperatore Carlo V che alla fine trascina con sé il nipote. Difficile trovare le parole per esaltare questo capolavoro assoluto della musica, che contiene in sé pagine di meravigliosa bellezza: “Dio, che nell’alma infondere” (il così detto duetto dell’amicizia) tra Carlo e Posa, il grande bellissimo monologo di Filippo (“Dormirò sol nel manto mio regal”), dove il re esprime tutta la sua sconsolata situazione di monarca assoluto ma di uomo terribilmente solo, la morte di Posa (“Per me giunto è il dì supremo”), per non parlare delle scene di massa: quella grandiosa e articolata dell’autodafè e quella della folla in tumulto che vuole liberare Carlo ma è fermata dal Grande Inquisitore, scene quest’ultime che tra l’altro conferiscono al lavoro un’aura da grand-opéra.
Anche senza elencare queste famosissime pagine, per sottolinearne la bellezza e testimoniare l’infinita varietà di questa meraviglia musicale basterebbe anche solo ascoltare un frammento del primo atto, in sé marginale, “Non pianger, mia compagna”, in cui la Regina consola la sua dama di compagnia, che viene rimandata in Francia da Filippo.
La versione vista al Teatro alla Scala ci ha alquanto soddisfatto, soprattutto per l’eccellente prova del direttore Fabio Luisi, che è riuscito a rendere musicalmente molto bene tutti i vari sentimenti che percorrono l’opera, senza per altro indulgere nelle scene di massa ad effetti roboanti. In questo modo, i due aspetti che compongono l’opera, quello storico e quello privato, risultano amalgamati in modo profondo.
La regia di Stéphane Braunschweig mira all’essenziale, in una scenografia dalle forme geometriche che cambiano a seconda dell’esigenza.
Come si è già detto, la foresta di Fontanebleau aleggia sempre in questa messa in scena, simbolo di una giovinezza felice in cui i protagonisti (Carlo ed Elisabetta) vivevano senza le preoccupazioni dovute alle implicazioni della politica, ed è per questo che vediamo spesso evocato un Carlo adolescente.
La scena spesso è vuota, ad eccezione di quella luminosissima, ambientata nei giardini della Regina e quella dell’autodafè, dove Filippo II è collocato da solo, in disparte. Da sottolineare, qui e in altri momenti, le splendide luci di Marion Hewlett, che giocano spesso con le ombre dei personaggi.
Belli anche i costumi di Thibault Vacraenenbroeck, che ancora una volta nella scena dell’autodafè mescola quelli seicenteschi dei nobili con quelli moderni del popolo, a sottolineare come lo sfruttamento sia simile in ogni epoca.
Poco felice abbiamo invece trovato il momento della morte di Posa, ambientata in una prigione, contrassegnata solo da una sedia, e dove i personaggi si muovono con grande difficoltà.
Per quanto riguarda i cantanti, su tutti ci sono sembrati grandeggiare il Filippo II di René Pape e il Marchese di Posa di Massimo Cavalletti. René Pape, senza alcun sforzo nella voce, possiede sempre il fraseggio, gli accenti giusti che gli permettono di sottolineare tutte le variegate sfaccettature del personaggio: regalità, mestizia, dolore, deferenza… Mentre Massimo Cavalletti riesce a dare voce e corpo con discrezione al bellissimo personaggio di Posa, nobile nel censo e nell’anima, e affettuosamente legato a Carlo.
Fabio Sartori, pur non avendo il physique du role per il personaggio di Carlo e un timbro e un fraseggio non certo mutevoli, supera la difficile prova di impersonare “il ruolo del titolo”; ci è infine piaciuto molto il Grande Inquisitore di Štefan Kočan.
Per quanto riguarda i ruoli femminili, Martina Serafin è una Elisabetta scenicamente autorevole ma un po’ in difficoltà negli acuti, che a volte risultano metallici, mentre la Principessa d’Eboli di Ekaterina Gubanova, pur non possedendo una voce di grande volume, nella sua interpretazione sia della canzone del velo, sia del difficilissimo “O don fatale, o don crudele” ci è parsa nel complesso accettabile.
Un’edizione dunque, questa del capolavoro verdiano, che si posiziona tra le buone riuscite degli omaggi che il Teatro alla Scala ha reso al compositore di Busseto per onorarne la memoria a duecento anni dalla nascita.
In scena fino al 29 ottobre.
Don Carlo
di Giuseppe Verdi
Direttore: Fabio Luisi, Piergiorgio Morandi (29)
Regia e scene: Stéphane Braunschweig
Costumi: Thibaut Van Craenenbroeck
Luci: Marion Hewlett
Cast:
Filippo II, re di Spagna
René Pape (12, 16, 19, 23, 26)
Štefan Kocán (29)
Don Carlo, Infante di Spagna
Fabio Sartori
Rodrigo, Marchese di Posa
Massimo Cavalletti
Il Grande Inquisitore, cieco nonagenario
Štefan Kocán (12, 16, 19, 23, 26)
Rafal Siwek (29)
Un frate
Fernando Rado
Elisabetta di Valois
Martina Serafin
La Principessa d’Eboli
Ekaterina Gubanova
Tebaldo, paggio d’Elisabetta
Barbara Lavarian
Il Conte di Lerma
Carlos Cardoso
Un araldo reale
Carlo Bosi
Voce dal cielo
Roberta Salvati
Deputati fiamminghi
Ernesto Panariello, Simon Lim, Davide Pelissero, Filippo Polinelli, Federico Sacchi, Luciano Montanaro
Visto a Milano, Teatro Alla Scala, il 19 ottobre 2013