Il culto di cui è oggetto l’opera e il personaggio di Roberto Bolaño è forte e non ha barriere nazionali. Il quarto capitolo del suo “I detective selvaggi” del ’98 venne dall’autore riscritto e ampliato dalle tredici pagine originali alle circa cento già un anno dopo, e quasi immediatamente tradotto in Italia. Un’infinità di personaggi, reali o realistici, spuntano da questo piccolo “testo minore”, come lo stesso Bolaño lo definiva: i vecchi e i nuovi poeti dell’America Latina.
C’è Pedro Garfias, poeta spagnolo della Generazione del ’27 esule dalla guerra civile, il dolce poeta che non sorrideva mai, “dallo sguardo tristissimo”, attirato da cosmiche malinconie dentro l’oscura bocca di un vaso di ceramica; c’è il pittore d’avanguardia Carlos Coffeen-Serpas, tracciatore di inquietanti anatomie d’inchiostro e autore di premonizioni oniriche vertiginose, figlio della poetessa Lilian; c’è la surrealista Remedios Varo, e lo stesso Bolaño, celato da un mascheramento che sa di refuso, sotto il nome di Arturo Belano, “il più giovane dei giovani poeti di Città del Messico”.
Belano-Bolaño è uno dei tanti che si sono trovati in mezzo alla spaventosa irruzione delle forze speciali di polizia alla facoltà di Lettere dell’Università della capitale messicana: è il 18 settembre del ’68. Lui è anche il cileno che ritorna in terra natia per supportare il tentativo di Allende, e che pure arriva, dopo un travagliato e periglioso viaggio, giusto in tempo per vederlo cadere sotto la scure del golpe militare guidato da Pinochet.
C’è l’America Latina degli anni Sessanta e Settanta, in “Amuleto”, presentato al Teatro India di Roma; ci sono i giovani e i vecchi poeti, i veri e i falsi miti dell’America rossa innamorata di Castro e speranzosa in una via sudamericana al comunismo, e anche tutti i fallimenti di coloro i quali hanno lottato con quegli stessi leader che, se fossero saliti al potere, li «avrebbero mandati per primi nei campi di lavoro». Così confesserà lo stesso Bolaño qualche anno dopo quel settembre del ’68, quando, tra camionette, manganellate, passi di stivali e grida (“questa sarà una storia del terrore” annuncia l’incipit del testo), tra le aule della facoltà di Filosofia e Lettere dell’UNAM, qualcuno, insperabilmente, si salva.
E’ una sola persona quella che evita le manganellate e l’arresto, così come la morte (non è breve il conto degli assassinati in quei terribili giorni): è una donna semplice ma appassionata, sognatrice e amante dei poeti, ma non poetessa. Auxilio Lacouture, uruguaiana, senza un perché emigrata a Città del Messico, quasi mascotte della facoltà, rimarrà nascosta per dodici giorni in un bagno del quarto piano, ignorata da tutti, mentre professori, studenti e segretarie vengono fatti sgombrare, barricata lì dentro con la sola compagnia dei versi di Pedro Garfias. Sarà lei che diventerà la “madre di tutti i poeti di Città del Messico”.
Potrebbe essere che l’Auxilio, protagonista dell’“Amuleto” raccontato per la scena da Riccardo Massai in forma di monologo e per bocca di Maria Paiato, stia ripercorrendo, nel suo racconto, tutta la massa di pensieri che in quei lunghi giorni di paura le si sono affollati in testa? Dal suo arrivo a Città del Messico, gli anni della vecchia e poi della nuova poesia, quelli del sogno, quelli della violenza e quelli della disillusione, quando gli ideali e la poesia si sono spezzati, o almeno piegati a forza di manganellate; i pochi amori rapidi, gli alti, semplici, onesti e fragili ideali di un personaggio che, come una finestra sopra una larga piazza, osserva e comprende tutto perché è aperta a tutto ciò che accade davanti a sé, e si regge grazie alle spalle larghe di una sorridente semplicità. Una sorta di piccolezza entusiasta e comprensiva, tanto sguarnita dal punto di vista teorico e politico quanto colorata, ottimistica, genuinamente bendisposta verso gli uomini, che ci ricorda quell’altro versante della poesia, quello del valore civile e militante.
Questa Auxilio – a sua volta immagine di Alcira Souf Saffo, conosciuta in Messico da Bolaño e morta a Montevideo dopo un internamento in manicomio – rivive nella inesauribile gamma di sfumature rappresentative di Maria Paiato. Lo spettatore rimane colpito, una volta di più, da un mestiere sicuro che non basta mai a sé stesso, che non lascia per un secondo l’immagine recuperata e gettata nel pubblico, la comunicazione, la coerenza e l’arte di spingersi persino un po’ più in là della giusta misura. Dentro a una regia che è un tutt’uno con la recitazione e un’illuminazione di scena da manuale, semplice, utile ed efficace.
E se il testo di tanto in tanto rischia di accomodarsi su sé stesso, su un personaggio che passo dopo passo si costruisce come una naturale conseguenza di premesse decisive, con una naturalezza tutta femminile la Paiato censura continuamente ogni atto di automatismo, scuote quelle pagine più facili e le tiene sempre sul filo, le mette costantemente alla prova, e le trattiene, quando vogliono levarsi in immagini di sogno, nel corpo di una donna non giovane, non ideale, non esemplare o edificante.
Ed eccola, la poesia del Sudamerica, che cammina per le strade e tra le aule universitarie senza contrasto, che si può leggere persino in un cesso pubblico, ma che mai si sottrae dall’informare la vita nel doppio binario della quotidianità e dell’aspirazione a un futuro libero.
AMULETO
di Roberto Bolaño
traduzione Ilide Carmignani (Adelphi)
regia Riccardo Massai
con Maria Paiato
Produzione Archètipo
in collaborazione con Teatro Metastasio, Stabile della Toscana
durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 3’
Visto a Roma, Teatro India, il 20 gennaio 2017