Triangolo Scaleno e la sua Anima cattiva

Francesca Farcomeni (photo: triangoloscalenoteatro.it)
Francesca Farcomeni (photo: triangoloscalenoteatro.it)

Triangolo Scaleno Teatro nasce nel 1991, quando cominciava a risvegliarsi una nuova avanguardia, la stessa che, negli anni a seguire, avrebbe dovuto affrontare enormi problemi di produzione, distribuzione e soprattutto di carenza di spazi per far crescere i propri lavori. Dall’occupazione del centro sociale Strike alla gestione del Teatro Furio Camillo, fino ai più recenti e ambiziosi progetti di produzione indipendente associata (Officine Triangolo Scaleno), che chiamano in causa realtà provinciali, per arrivare a un evento tutto sommato di successo come Teatri di Vetro, del quale per la quarta volta TST ha curato la direzione artistica.
Questo per inquadrare il lavoro di un elemento decisamente importante nell’humus teatrale romano. Non soltanto da un punto di vista artistico ma come sforzo di crescita produttiva, di ricerca di nuove possibilità, di scappatoie, di soluzioni.

Lo spettacolo, che aveva già visto un debutto a novembre proprio al Furio Camillo, prende le mosse da “L’anima buona del Sezuan”, il testo forse più complesso e grondante poesia di tutta l’intera produzione di Bertolt Brecht. La storia, ambientata nella piccola provincia del Sezuan (che in una didascalia in testa al copione viene descritta come simbolo di “tutti i luoghi dove gli uomini sono sfruttati dagli uomini”), ruota intorno a tre dei in cerca di una sola anima buona che provi loro che il genere umano non è marcito del tutto, che un’oncia di speranza ancora c’è.

Roberta Nicolai, che firma regia e drammaturgia, è la stessa che nelle note di presentazione della compagnia scrive “che non persegue le vie della riconoscibilità, ma ama rischiare di non riconoscersi essa stessa, creando nuove convenzioni sceniche ad ogni nuovo progetto di creazione”. E di questo bisogna dare atto. Il testo di Brecht viene preso e torturato da un’indagine drammaturgica che lo ridistribuisce su cinque attori, coinvolti in una sorta di giostra in cui cambi d’abito riassegnano le parti di scena in scena. Allora il ruolo dell’aviatore disoccupato, dell’acquaiolo, della prostituta, del cugino e via dicendo passano di continuo da un corpo all’altro, in una compagine disordinata di interpretazioni volutamente (forse) sopra le righe.
Misteriosi inserti di musica pop/rock (playback su Madonna e Led Zeppelin) creano un cortocircuito che non si risolve, facendo da colonna a un’ambientazione che sembra interessante, ma che troppo spesso non trova abitanti giusti.

All’alta graticcia sono appesi abiti da lavoro di ogni genere, che fanno la propria figura soprattutto se illuminati dal basso, incombenti come bianchi fantasmi. Il resto del bel disegno luci crea pozze di chiarore ambra e avamposti di lividi controluce su una scena che galleggia nel buio.
“Fino a qui tutto bene”, diremmo citando un bel film. È resa a dovere, visivamente, la fragilità di un mondo che sembra vivere sottoterra. La scelta di togliere corpo all’ambientazione cinese, dando piuttosto peso al tema della siccità come segno di decadenza fisica fa rima con quella di derubare gli attori del proprio ruolo e condividerlo su una sorta di corpo corale (come dire ultima soluzione) che si rivolge non più agli dei pagani del testo, ma a un unico dio, interlocutore cui si può dare del tu chiamandolo “capo”. Tutto si sposerebbe bene con la parabola millenarista e malinconica che fa di tutto il mondo “sotterraneo” un’unica forma organica composta di frammenti precari, gocce di pioggia troppo rade per essere sufficienti a dissetare, ché “non è vero che il dolore purifica”.

Peccato che sulla scena come nell’impianto drammaturgico regni un caos che non conosce confini e che impedisce a quei frammenti di ricomporsi. Le buone prove di Tamara Bartolini (che scioglie sillabe sotto la luce degli ambra riuscendo davvero a invocare immagini chiare e che almeno resiste alla tentazione di urlare), la fisicità sbilenca di Enea Tomei e certi momenti di quiete aiutano ad individuare in più di un punto qualche luce di speranza su questo linguaggio che, troppo spesso, non risulta nemmeno ermetico, ma proprio privato, in un certo modo egoista. Ma è come sfilarsi anelli quando si è a mollo in un lago torbido. O ti tuffi subito o li perdi immediatamente.
C’è forse alla base un’operazione troppo troppo troppo intellettuale, che non potrà mai essere giustificata, un assurdo “dare per scontato” un testo originale che lancerebbe messaggi complessi ma in sé precisi, didascalici, chiari, non fosse che si è intervenuti con una falce a mozzare il respiro di ritmi e poesia. Se riesco a seguire le “lezioni” è solo perché conosco quel testo, perché so declinare una definizione di “teatro epico brechtiano”. E comunque non sempre questo mi salva dal chiudere gli occhi e massaggiarmi le tempie. Molto del pubblico intorno a me non coglie, guarda altrove, forse cercando il catalizzatore di una calamita così sfrontata, che si beve da sé tutta l’energia.

Dov’è il rigore morale che contraddistingue Brecht? Dov’è l’ironia tragica di chi scriveva di totalitarismi e degrado a un passo dai rastrellamenti nazisti? Si voleva renderlo contemporaneo? Lo era già, in maniera più elegante. Dov’è l’anima buona di questo spettacolo? Puntare sulla drammaturgia (una qualunque, sia essa di testo o immagini) e non realizzarla in uno sforzo chiaro è una sconfitta. Puntare su due drammaturgie contemporaneamente e annullare l’una con l’altra è un vero e proprio errore. Riparabile, ma per adesso un errore.
All’uscita parlo con qualche collega e amico che aveva visto il debutto di sei mesi fa. Miglioramenti ce ne sono, dicono, complice uno spazio più adeguato. Resta il fatto che io che ho visto il secondo tentativo (risultato di un lavoro di crescita?) sono ancora sul fondo del lago, a cercare gli anelli che ho perso.


ANIMA

progetto, drammaturgia e regia: Roberta Nicolai
interpreti: Michele Baronio, Tamara Bartolini, Antonio Cesari, Francesca Farcomeni, Enea Tomei
costumi e scene: Andrea Grassi
sonorizzazioni: Gianluca Stazi
produzione: TST e OFFicINa di Triangolo Scaleno Teatro con il sostegno di Quartieri dell’Arte, Europe&Cies, Santasangre
durata: 1h 37’
applausi del pubblico: 1’ 50’’

Visto a Roma, Teatro Palladium, il 21 maggio 2010

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