Il secondo capitolo della trilogia che la compagnia Lombardi-Tiezzi ha programmato con il Teatro di Roma è “Antigone”. Il primo era stato due anni fa “Calderòn” (Ubu 2016 per la migliore regia) del “tragico” Pasolini; seguirà nel 2020 una “Tempesta” shakespeariana, con lo stesso gruppo di attori, Sandro Lombardi e Lorenza Guidone in testa.
La trama sofoclea è nota, si tratta della disobbedienza di Antigone al decreto di Creonte, re di Tebe, il quale vieta, pena la morte, la sepoltura di Polinice, uno dei due figli di Edipo rivali per il possesso del trono.
I due si sono uccisi a vicenda e, secondo il tiranno, Eteocle merita onori funebri e sepolcro in quanto difensore della città, mentre Polinice, la guida dei terribili Sette che ne assediarono le porte, dovrà rimanere insepolto. Scoperto che Antigone, sorella dei due, ha contravvenuto alla legge, Creonte la condanna ad essere seppellita viva in una grotta.
Bene, se la follia del tiranno vuole che i morti stiano sotto al sole, poggiati sulla Terra, preda dei cani feroci e degli uccelli rapaci, e i vivi, come Antigone, sottoterra, gli dei provocatoriamente seguaci di questa nuova legge tessono una precipitosa catena di lutti fra i congiunti di Creonte, gettandoli nell’Ade: il figlio maggiore, il minore e la moglie. Antigone intanto, fulcro di questo ribaltamento inaudito dell’ordine naturale, ha atteso la morte rimpiangendo gli anni che non avrebbe vissuto e la prole che non avrebbe generato (ad ampliare il ventaglio di corollari del suo “nome parlante”, che contiene prefisso oppositivo e tema della nascita), mentre Creonte si macera in un’impotenza che sa di contrappasso.
Andrea Porcheddu sulle pagine de “Gli stati generali” definisce la messinscena romana un’occasione mancata, dotata di una «forma elegante ma vana». L’opinione è condivisibile se si cerca in questa produzione uno sforzo per riattivare la circolazione sanguigna nei versi di Sofocle, magari con l’obiettivo di far penetrare con più decisione in un pubblico nuovamente (e fatalmente) immemore un contenuto che si considera valido sempre, a prescindere dai contesti. Ci si ritroverà scontenti, poiché in altro consiste il lavoro “attualizzante” di Tiezzi. Vediamo in cosa.
Del grande regista aretino è stata riproposta l’8 marzo da Rai 5 la regia di una “Norma” con la mai abbastanza rimpianta Daniela Dessì. Accostando le due operazioni, peraltro molto diverse fra loro, si traggono utili indicazioni. Usare l’opera come pietra di paragone non è un vezzo. I melodrammi più noti sono simili nella sfida che pongono al regista di un classico di prosa, quando il problema sia la “attualizzazione”.
Ebbene qui, in entrambi i casi, i nuclei incandescenti dei testi sono lasciati in una sorta di autarchia d’espressione. Come la trama agisca sui personaggi e come i loro sentimenti, viceversa, vivano nel testo non è oggetto di scavo: è come se tutto ciò fosse abbandonato ad applicarsi solitario allo sforzo di emergere.
Persino gli attori, come si vedrà, non sono guidati a questo scopo. La tragedia è scortata dalla nuova traduzione di Simone Beta (sui cui risultati solo la lettura può dar conto, perché non restituiscono in forma abbastanza lampante un significativo gesto teatrale); il melodramma è sostenuto dai suoni generosi e pieghevoli della Dessì. Si è ignorato l’aspetto teatrale-ermeneutico e comunicativo del testo, poiché era un’altra l’urgenza: dotarli di una nuova compiuta smagliante veste da palco, che gli permettesse di inserirsi a pieno diritto nel teatro d’oggi.
Già lo spostamento del luogo dell’azione di Antigone, dal parodo in poi, in un enorme obitorio, è un indizio del fatto che ciò che Tiezzi fa con Norma, ripete con la tragedia: inventa un immaginario scenico, mirabilmente odierno, bello a vedersi, nel quale calare con innegabile classe il testo antico, pigliandolo, si potrebbe dire, con un braccio meccanico.
(Ciò dà ad alcuni spettatori, specialmente quelli d’opera, il senso appagante di sentirsi aggiornati, perché si assiste senza scandalo a una rappresentazione “moderna”: ma si tratta più spesso di un trucco, una “tecnica dell’attualità”).
Grande cura è dunque profusa per décor e costumi, e per tutto ciò che collabora alla credibilità e completezza di un’operazione scenica, con il risultato che ci si trova a concentrarsi su ciò che, forse ingenuamente, si definirebbe il contorno – inutile negarlo. E il lavoro di messinscena diviene lavoro di tecnica, e di tecnologia, avanzatissime.
Nel particolare, in “Antigone” la scenografia di Gregorio Zurla ricorda le claustrofobiche pareti nere del “Calderòn“, gli oggetti di scena sono perfettamente disegnati come rimodulazioni contemporanee di un mobilio alto borghese primo Novecento, le proiezioni sul tulle suggeriscono l’infrangersi dell’equilibrio della statuaria classica, le luci sono esatte e perfetti i gli interventi dei neon, i costumi di Giovanna Buzzi da produzioni di lusso, vari i cambi d’abito. Né manca la sorpresa del colpo di scena, l’apparizione di un tableaux-vivant di scheletri, oltre la luce di una finestra centrale.
Anche nella cura della recitazione Tiezzi sembra agire in una maniera simile, con un indizio ancora più esplicito della direzione verso cui tutte queste scelte tendono, e con un esito, qui sì, grave.
Vi è tra gli attori dell’”Antigone” una divergenza di linguaggi per i quali sembra inefficace la giustificazione generica che ricorre anche nel testo di sala: “L’anatomia dei personaggi”, per cui ciascuno necessiterebbe di bisturi linguistico di calibro diverso – con una decisa deviazione verso il dramma borghese, su cui Szondi non cessa di metterci in guardia.
Dalla rovente fusione del testo in una vocalità di insinuante melismi, dalla riduzione del personaggio ad affascinante burattino, gesti minimi ma enormi, convenzionali e simbolici, che come sempre fa di Sandro Lombardi il fulcro barocco della scena, a un realismo frequentemente incrostato di soluzioni accademiche della Guidone-Antigone, a un surrealismo esteriore e gestito a fatica da Francesca Benedetti nei panni di Tiresia, al pesante tentativo “fool” di Massimo Verdastro-guardia, all’estemporaneo “cunto” di Annibale Pavone-messaggero, ciascuno stenta enormemente a essere in comunicazione con gli altri, e col corpo del testo. Ogni residuo di koinè è esploso, vaporizzato, ben al di là di ogni dichiarata, comoda dichiarazione di intenzionalità.
Anche qui, non sembra una ragione intrinseca a muovere le scelte, bensì la stessa necessità che fa calare in scena i neon, e declinare “alla Castellucci” il finale del Corifeo: uomini in tuta stagna a pulire il sangue da terra, tensione estrinseca verso una forma scenica spiegatamente, dichiaratamente contemporanea (o contemporaneistica). Quel braccio meccanico che calava il testo in una scena aggiornata, ora distribuisce tra le parti un catalogo di “modi” del recitare tra accademia, ricerca, off-theatre, tradizione popolare recuperata, riflessi di commedia dell’Arte.
L’impostazione della “attualità nella tecnica” è dunque onnipervasiva: scene, costumi, illuminazioni e proiezioni, recitazione. Tecnica che è altra cosa dalla “ragione” invocata nel foglio di sala: la fredda luce di una scheda compilata al computer non è la stessa che fa stillare la fronte del chirurgo chino sulle viscere palpitanti di un paziente.
Se è vero che la tecnica merita sempre rispetto e riscuote spesso stupore, il lavoro di Tiezzi si guarda con occhi spalancati: squisitamente registico, nel più ampio, raffinato, aggiornato senso possibile. Grande spettacolo, da vedere e rivedere. Ma noi dove siamo in tutto questo?
In scena a Roma fino al 29 marzo.
Antigone
di Sofocle
traduzione Simone Beta
adattamento e drammaturgia Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi
regia Federico Tiezzi
con Ivan Alovisio, Marco Brinzi, Carla Chiarelli, Lucrezia Guidone, Lorenzo Lavia, Sandro Lombardi
Francesca Mazza, Annibale Pavone, Federica Rosellini, Luca Tanganelli, Josafat Vagni, Massimo Verdastro
e con Francesca Benedetti
scene Gregorio Zurla
costumi Giovanna Buzzi
luci Gianni Pollini
canto e composizione dei cori Francesca Della Monica
movimenti coreografici Raffaella Giordano
assistente alla regia Giovanni Scandella
durata: 2h
applausi del pubblico: 2’
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 14 marzo 2018
Prima nazionale
gentile Mariano, è proprio per cercare di mantenere il livello che lei cordialmente riconosce alla nostra critica teatrale, che rifuggo dalla logica “di pancia” dell’acclamazione e della stroncatura. Le assicuro che la noia con cui lei avrebbe preferito si liquidasse lo spettacolo può trovare le sue cause in diverse delle componenti analizzate qui sopra. Preferisco partire da quelle, cercare discorsi più freddi, pur nella sede limitata di una “recensione”. Se le suonano come esercizi di stile, mi spiace sinceramente.
Grazie per la risposta. Buon lavoro
Tentativo di salvarlo, ma la questione di fondo è una: lo spettacolo è di una noia sconcertante, e per apprezzare scene e luci bastano le fotografie di scena. Tutto è insopportabilmente freddo e cerebrale ma senza il genio di un Castellucci. Spettacolo moderno? Mah. Attenzione anche voi agli “esercizi di stile” che rischiano di minare le ottime e precise “critiche teatrali” del vostro sito