Antonio Catalano, il mago povero da Pirandello agli Alfieri

I ghiottoni|Antonio Catalano|Sagra del meraviglioso mondo di Odisseo
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Antonio Catalano
Antonio Catalano durante la ‘Sagra del meraviglioso mondo di Odisseo’

Comincia oggi una rubrica di approfondimento sul teatro ragazzi condotta, a cadenza mensile, da Mario Bianchi, autore, regista, critico e direttore di Eolo, il sito ufficiale del teatro ragazzi italiano.
Grazie a Mario, anche fondatore e direttore artistico del Teatro Città Murata (Centro di Produzione Diffusione e Documentazione di Teatro per le Nuove Generazioni), Klp cercherà di approfondire e dare maggior visibilità a realtà spesso troppo poco conosciute.

Il teatro ragazzi non è fatto solo di spettacoli a loro dedicati, non è costituito solo da animazioni o laboratori, ma è composto anche da mondi in cui essi possono ritrovarsi a fantasticare. Molti sono gli artisti che si sono dedicati a costruire questi mondi. Autori, teatranti e non, che magari non calcano scene propriamente teatrali ma che offrono universi, prospettive con spettacolazioni tra arte e performance, cercando vie nuove all’immaginazione dei bambini e, perché no, degli adulti intenzionati a rimanere bambini.
Questo mese vogliamo presentarvi uno di questi: Antonio Catalano.

Definire Antonio Catalano potrebbe essere assai riduttivo. Catalano è un inventore di mondi, un poeta in senso assoluto, che ogni volta immerge lo spettatore in un incanto da cui esce forse solo quando lui smette di parlare. Usa infatti la parola per meravigliare, una parola che quasi sempre si sposa a qualche cosa di materiale e che allo stesso tempo, nel medesimo istante in cui viene toccata, si trasforma subito in materia impalpabile.

Catalano nasce a Potenza nel 1950, e dal 1977 è presente sulle scene italiane.
Con il Mago Povero prima, diventato con il tempo Teatro degli Alfieri e poi solo gli Alfieri, ha realizzato molti spettacoli come “Pietre”, “Moby Dick” , “Conferenza buffa” , “Galileo”, “Scaramouche”, “Il vecchio e il mare”, “Creature” , “Nessuno” , “Alberi”, “Van Gogh”… spettacoli dove, quasi sempre diretto da Luciano Nattino, concedeva ai personaggi interpretati un’aura misteriosa che li faceva navigare tra sogno e realtà.

Non a caso Leo De Berardinis lo chiama per vestire i panni del mago Cotrone ne “I giganti della montagna”, per poi passare ad interpretare “Don Chisciotte” con gli attori del Living Theatre di New York per la regia di Judih Malina.
Insieme a Maurizio Agostinetto, scenografo e grafico, Luciano Nattino, autore e regista, e Lorenza Zambon, attrice e autrice, fonda la compagnia teatrale Casa degli Alfieri, organismo di ricerca progettuale nel campo delle arti, con propria sede nell’omonima casa-teatro in provincia di Asti, nel cuore del Monferrato, un progetto di casa-teatro utopico e forse unico in Italia.
Qui essi creano; e qui chi vuole progettare teatro trova un ambiente adatto in cui provare a contatto con la natura e con altri artisti.
Nel 1999 Catalano decide di uscire dalla scena per creare “Universi sensibili”, il suo grande percorso d’arte interattivo che debutta con la prima installazione “Armadi sensibili” alla Biennale di Venezia. Ogni armadio, per Antonio ma anche per ogni spettatore, diventa un mondo da scoprire attraverso oggetti quotidiani, spesso trovati nel bosco, pezzi di legno lavorati, suoni, sculture che creano suggestioni e labirinti di senso sempre diversi.

Da quel momento l’artista pratica l’abbandono di ogni idea di spettacolo, proseguendo nella ricerca di incontri artistici con “visitatori” di ogni età, in cui tende a provocare poesia e meraviglia. Ovviamente i visitatori privilegiati sono i bambini. Essi infatti, più degli adulti, hanno ancora la capacità di meravigliarsi, di immergersi nella realtà come se fosse un sogno ad occhi aperti.
Nuove grandi installazioni d’arte vengono create con i medesimi processi inventivi ma con diverse ed evocative suggestioni (le Tane, le Cabine da mare, le Macchine sonore, le Lucciole batticuore, il Popolo dell’Autunno, i Musei sentimentali, i Velieri, I padiglioni delle meraviglie, la Sagra del meraviglioso mondo di Odisseo, La bibbia dei semplici, La Cappella dei meravigliati…) in coproduzione e in collaborazione con importanti organismi nazionali e internazionali (Piccolo Teatro di Milano, Teatro delle Briciole, Teatro Kismet di Bar, Bildungsdirektion des Kantons Zürich, schule&kultur, Festival Teatralia di Madrid, Festival internazionale di Leon, Biennale Internazionale de la Marionette-Parc de la Villette di Parigi, Channel Scène Intarnationale di Calais, Auditorium Parco della Musica di Roma…).

Sagra del meraviglioso mondo di Odisseo
Sagra del meraviglioso mondo di Odisseo

La suggestione che Catalano evoca, tra meraviglia e poesia, può essere simbolicamente rappresentata dalla “Sagra del meraviglioso mondo di Odisseo”, dove l’epopea dell’eroe omerico viene rivissuta attraverso una  serie di momenti contenenti oggetti e mappe: un museo sentimentale ironico e suggestivo.
Il ‘ciclo delle Sirene’, invece, risulta essere un omaggio alla vecchiaia: “Ho voluto rendere omaggio alla vecchiaia – spiega Tonino – perché le voci dei vecchi sono come quelle delle sirene: bellissime, ma inascoltate”. La ricerca delle piccole cose che, attraverso l’arte del mago di Asti, diventano meraviglie continua incessantemente. Ecco allora ‘i Ghiottoni’, affascinanti personaggi che al loro interno contengono memorie composte da materiali di ogni tipo, e che rimandano a mondi perduti: bastano due cappelli fatti di pigne e di rami per innamorarsi di questi automi silvestri.
E, poi, quadri fatti di noci, pomodori e peperoni, che l’autore presenta con la sua solita poetica ironia; o una teoria di semi che germogliano visioni composte di foglie, piume e animali che riverberano sensazioni perdute e che vorremmo sempre trattenere con noi. L’ultimo progetto di Catalano, condiviso con altri artisti, è il “Popolo del mare”, un microcosmo di nuova umanità pronta a salpare per lidi lontani, a volte solo apparentemente ospitali.

Perché ad un certo momento hai smesso di fare l’attore? Come definiresti il tuo nuovo percorso? E cosa è rimasto di teatrale?
Se per attore si intende una persona che interpreta un personaggio, che mette in scena un testo, con un regista e una scenografia, allora sì, ho smesso di fare l’attore.
Se invece si intende l’attore come una persona che resta persona anche quando racconta o interpreta, allora sono ancora un attore, senza mostrarlo, senza essere appesantito da un testo da rispettare, un attore che segue il percorso di cosa gli sta accadendo attorno, un attore capace di ascoltare le voci che lo fanno agire, un attore – appunto – che non agisce ma è agito dagli eventi. Insomma un attore che innanzitutto si fa capire e popolare e, nello stesso momento, restituisce a se stesso e agli spettatori il mistero dell’incontro teatrale, il mistero dell’arte attoriale.
Se esiste arte nel teatro bisogna che questa sia contagiosa, che sia capace di suscitare nell’uomo un sentimento di gioia di partecipazione. Lo spettatore non è per me un numero, ma una persona che ascolta, in quel momento della sua vita, un’altra persona, ma solo se è necessario; altrimenti si sta benissimo anche a mangiare in compagnia, o a leggere un bel libro. Quello che mi interessa è la relazione che c’è fra me e te; se il teatro interrompe questa relazione facciamo altro.
Il teatro deve ritrovare la sua capacità di essere indispensabile.

Eri un attore abbastanza particolare, come ti saresti definito?
Non mi sono mai ritenuto un attore particolare o particolarmente originale. Farfugliavo le battute e, fra una battuta e l’altra, recitavo nei silenzi, nei borbottii, nelle mezze battute. Ti sembrerà strano, ma il mio stare in scena era strettamente legato alla tradizione. Un esempio su tutti: l’inizio di “Natale in casa Cupiello”, quando Edoardo si sveglia per continuare il suo presepe di carta pesta; è una scena memorabile fatta di singulti e di silenzi, questa è per me la tradizione, da non confondersi con l’accademia. Tieni presente anche che non ero solo un attore, ma scrivevo testi, costruivo scenografie, realizzavo gli oggetti, quindi partecipavo alla costruzione della messa in scena nella sua totalità: mi sarei quindi definito, ancora una volta, un attore artigiano.

Cotrone dei “Giganti” ti stava proprio a pennello. Non ti senti un po’ Cotrone, nel tuo nuovo percorso?

Il percorso che ho iniziato con “Gli universi sensibili” è stato fatto stagionare per molte primavere. L’incontro con il mago Cotrone avvenne prima dei “Giganti della montagna” interpretato con Leo de Berardinis. Il Cotrone di Pirandello dà le dimissioni al mondo e protegge una villa magica. Cotrone è un mago che fa apparire mondi. In questa chiave di mago povero mi sento molto vicino al personaggio inventato da Pirandello.

Cosa ti interessa maggiormente solleticare nel tuo spettatore?
Penso che uno dei punti chiave per poter mettere gli spettatori in una condizione di meraviglia sia quello di realizzare “opere” che siano evocative. L’evocazione è una dei punti principali che cerco di mettere nel mio lavoro. Ho imparato che nei gesti dell’attore, nella sua presenza, ci può essere una grande evocazione, se naturalmente l’attore è in grado, contemplando il mondo, di trasferirlo nel gesto teatrale. Un altro elemento chiave è la curiosità. Sia la curiosità che l’evocazione possono essere contagiose; ed è questo che voglio fare: contagiare, fare ammalare di meraviglia.

Cos’è per te l’infanzia?
Una piacevole, dolce malattia, capace di guidarti quotidianamente nella visione e nella contemplazione del mondo.

Qual è la tua accezione di ‘sensibile’? Perché il mondo in cui viviamo è insensibile?
Il mondo intorno è un mondo insensibile perché non si cura più della fragilità delle persone e delle cose. E’ insensibile perché le persone non sono più in grado di guardare l’universo senza stupirsi. La sensibilità, esattamente al contrario, si cura delle fragilità e delle vulnerabilità. La sensibilità parte dall’idea che non si può essere felici da soli, ma che bisogna essere con gli altri.

I ghiottoni
I ghiottoni di Catalano

Come crei i tuoi universi così materici eppure così evanescenti?
Dopo tanti anni penso di essere in una condizione di lusso: il lusso del “perdere tempo”. Quando mi viene un’ idea la faccio stagionare: col tempo necessario darà dei frutti. Penso che l’idea sia un seme che ha all’interno un frutteto invisibile; bisogna aspettare. Quando l’idea è matura, occorre soltanto essere in grado di ascoltare; la mano si mette in contatto direttamente con il cuore e si trasforma in segno pittorico, teatrale, scultorico…

Nei tuoi lavori c’è sempre il rischio della facile retorica. L’elogia del passato, delle piccole cose, il riscatto degli umili. Non fanno parte della retorica? O sono ancora necessari? La retorica la combatti o la cerchi?
Non penso che chiudere le persone dentro agli armadi, far ascoltare loro vulcani e lettini parlanti, far visitare un mondo di archeologia immaginaria, parlare di musei sentimentali… sia un fatto retorico.
Penso di collocare le cose che faccio in un tempo anacronistico, fuori dal tempo, che non si rapporta né con il presente, né con il passato. E’ vero, esiste retorica nel lavoro che faccio.

Parlaci del tuo ultimo progetto: “Il popolo del mare”.
Un laboratorio aperto e un evento-spettacolo nato lungo le spiagge dell’Area Marina di Torre Guaceto, dove uno staff di scrittori, attori, musicisti, artisti e artigiani guidati da me, Luigi d’Elia e Francesco Niccolini ha dato vita a un esercito non violento di creature/uomini costruiti con i frammenti approdati sulla riva del mare. Domenica 5 settembre, al tramonto, le creature silenziose sono sbarcate per la prima volta con i loro sogni, racconti e ricordi, accolte da centinaia di sguardi meravigliati e commossi. “Il Popolo del mare” ora chiede accoglienza in nuovi lidi in cui andare e crescere. Sicuramente l’8 marzo 2011 un nuovo sbarco ricorderà quello del popolo venuto dall’Albania dieci anni fa.

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