Latella, Bene, Totò: tutti pazzi per Pinocchio

Christian La Rosa è il Pinocchio di Latella (photo: Brunella Giolivo)||
Christian La Rosa è il Pinocchio di Latella (photo: Brunella Giolivo)||

“È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffio dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale”.
(“Le avventure di Pinocchio”, Carlo Collodi, capitolo X)

Così il Teatro accoglie Pinocchio, tra urla festanti dei burattini e proteste impazienti del pubblico. Il ragazzo di legno risponde alla chiamata del palco anche oltre il testo, nel doppio solco di un’opera sempre popolare eppure ermetica.
Il romanzo di Collodi è una fiaba in cui il vigore fantastico e la grazia linguistica (gustabile anche nel passo appena citato) sono particolarmente suggestivi per una traduzione teatrale; vi troviamo un agile labirinto, con al centro un ordigno di legno: un carattere proteiforme, pronto a deflagrare in itinerari di rappresentazione singolari e arbitrari.

Scegliamo dunque, con pari arbitrio, tre fra le innumerevoli schegge partite da “Pinocchio”. Schegge di scena, perché il teatro stesso è a suo modo un ordigno, poroso e pronto all’esplosione. Tre casi esemplari: uno spettacolo teatrale a tutti gli effetti; l’edizione televisiva di uno spettacolo; una sequenza cinematografica ambientata in un teatro di burattini.
Si tratta di passare in rassegna tre emanazioni del capolavoro collodiano, in una carrellata a ritroso che parte dalla versione teatrale più recente e contemporanea, passando per la lettura fattane dall’uomo di teatro italiano forse più discusso del ‘900, e fermarsi infine su una performance “minima” del massimo attore comico nazionale.
A fine corsa si tenterà di rispondere a una domanda: in quale di queste opere, o momenti, appare con più efficacia l’ombra del burattino, antica e sempre nuova?

Il “Pinocchio” di Antonio Latella, in tournée in giro per l’Italia (Klp ne aveva già parlato proponendo un doppio punto di vista sullo spettacolo), è una versione ambiziosa del romanzo; lo spirito della fonte letteraria viene qui attraversato e amplificato con intenzioni drammaturgiche inedite e rischiose. Assistiamo a una lunga performance corale, a specchiare la folla di caratteri della fiaba, con il protagonista interpretato da Christian La Rosa in un tour de force fisico e verbale che gli ha portato anche il Premio Ubu 2017 come miglior attore under 35.

Il paesaggio della fiaba è ben restituito da una scenografia imponente, scandita da un’interminabile pioggia di segatura. L’elemento legno è infatti materia dominante della scena e della rappresentazione, come denuncia la presenza costante di un enorme tronco sospeso, dapprima defilato, poi al centro del palco.
Se lo spazio è misterioso ma plasticamente definito, gli attori sono piuttosto pedine liquide, che scambiano o mischiano le rispettive battute oppure spezzano la vicenda con sfoghi metateatrali. La storia di Pinocchio si dipana come la ricordiamo, ma agitata, diluita, a tratti appesantita da citazioni, colpi provocatori e riflessioni sofferte.

Proviamo a pensare la versione teatrale di un classico come un’opera parallela, che si distanzia liberamente dalla fonte ma ne segue per vie segrete, vicine o lontane, la traiettoria. Questo “Pinocchio” sembra piuttosto seguire una linea divergente, che cerca varie deviazioni. Un’operazione che ha in sé del rischio, perché quanto si guadagna in tentativo drammaturgico potrebbe non essere compensato da quanto si è perso: la voce del romanzo. La verbosità dei personaggi, tra ipercinesi e ilarità isteriche, può far rimpiangere il canto in prosa dei caratteri collodiani, in particolare del protagonista: personaggio prodigioso perché infantile, saccente, poetico, tagliente, avido, petulante, ma mai privo di quello che Pietro Citati chiamò “il timbro sfacciato, esibizionista, improvvisamente sentimentale della sua lingua di legno e di carne”.
L’ingordigia espressiva e tematica di questo spettacolo riesce a tradurre la forza essenziale e misteriosa del libro a cui si ispira?
In quest’ottica l’elemento più efficace in scena potrebbe allora essere proprio quell’enorme tronco inerte, che a sipario chiuso rimane fuori, incombente sul pubblico che si avvia all’uscita. Un ineffabile monolito toscano, grazie al quale la rappresentazione può cadere in piedi davanti allo sfuggente burattino.

Un Pinocchio che non cade né si alza, ma sta seduto per gran parte della sua esistenza in scena, è quello di Carmelo Bene. Uno spettacolo dalla lunga vita – la prima versione è del 1961 – che ha trovato il suo ultimo volto nell’edizione televisiva per la Rai del 1999.
Seduto su un banco di scuola, da lì il burattino parla come da una cattedra catacombale, o dal posto di vedetta per occhiate guardinghe e disincantate.
Il “Pinocchio” di Bene è un alto compromesso tra la verve drammaturgica dell’autore e l’omaggio all’originale letterario. Da un lato suoni e immagini del mondo collodiano sono piuttosto inauditi: un sobrio museo delle cere dove rimbombano timbri inquietanti e variati (a parte mirati interventi di Sonia Bergamasco, tutte le voci in scena sono pronunciate da Bene); d’altra parte il testo recitato è tratto esclusivamente e fedelmente dal romanzo. Così l’energia enigmatica e vernacolare di Collodi viene conservata e insieme messa in abisso da un filtro straniante.
Su tutto domina la voce di Pinocchio: il sound di un carattere grottesco, nervoso e prigioniero, eppure supremamente beffardo e distaccato; ogni sua parola riceve un colore ironico, le frasi sembrano smentirsi mentre vengono pronunciate. E a sospendere l’atmosfera tra il dramma e la provocazione, tutto lo spettacolo è recitato in playback, utilizzando la registrazione di una precedente edizione.

Altro elemento di fascino di questo “Pinocchio” è la particolare natura del cast in scena. Un coro gelato di pupazzi e bambole rappresenta l’alternarsi di babbi sentenziosi, bestie truffaldine, fate e grilli parlanti, mentre l’unico attore in carne e ossa è Carmelo Bene. Vediamo il volto invecchiato del grande salentino percorso da croste candide, come tracce di un manichino incompiuto. Oltre le virtù della sua voce, ne osserviamo gli scatti misurati e bizzosi del volto, il sarcastico digrignar di denti, gli occhi sbarrati verso il pubblico assente, nella penombra di una fiaba amara.

Lo spettacolo si chiude con il burattino che “muore” in scena, senza l’ambigua allegria che chiudeva il romanzo. Bene si leva il naso posticcio e scandisce al gatto e alla volpe tre pedanti proverbi, tre finali rintocchi. Il tono è ora monocorde e adulto, adatto allo stentoreo bollettino di un regime fantastico; la voce squillante e lunare del burattino non c’è più.

E dalla voce di Bene approdiamo infine a un Pinocchio muto, in un’apparizione rapida e a prima vista superficiale.
“Totò a colori”, uscito nel 1952, è un film dove l’esile e farsesco filo narrativo rammenda un’antologia dei migliori numeri da rivista del principe De Curtis. Proprio per questo è facile estrapolare una scena tra molte rimaste nella memoria del pubblico (dallo scontro con l’onorevole Trombetta sul vagone letto al pirotecnico finale con la banda in piazza); tra esse spicca infatti come un frammento più singolare la sequenza del teatro dei burattini. Stacchiamola dalle circostanze della pellicola e proviamo a osservarla come un episodio isolato e sospetto.

Totò, nei panni del musicista Antonio Scannagatti, è giunto a Milano in cerca di un contratto discografico. Lo insegue dal paesello un cognato infuriato, armato di coltello. Nella fuga, Scannagatti arriva in un teatrino, affollato da un pubblico di mamme e bimbi, e si nasconde tra i burattini pronti per il palco.
Mentre l’orchestrina attacca una melodia introduttiva, si apre il sipario su Totò-Pinocchio: burattino senza fili, fermo a fondo scena di profilo, abbigliato come in un’illustrazione d’epoca (la zoppicante pellicola a colori “Ferraniacolor”, adottata per il film, aumenta tuttavia la suggestione dell’immagine). Un rullo di tamburi sembra dare vita alla sagoma, che inizia a snodarsi e si volta per avanzare con passo marziale verso gli spettatori, quasi a conquistare la sua terza dimensione. Il suo pubblico è in realtà doppio, anzi triplo, perché dalle quinte lo scrutano confusi il cognato e le maestranze del teatrino, incerti sulla natura umana o meccanica di quella figura. E se vediamo la sequenza con lo spirito adatto, la confusione – inquieta e ammirata – può essere anche nostra.

Con mirabile economia di mezzi Antonio De Curtis sta disegnando con nervi e muscoli una delle vette della sua arte comica: al passo della marcetta dell’orchestrina il collo si disloca scattando da un lato all’altro, le membra sembrano mosse da impulsi segreti, il volto ora è fisso in una maschera sbilenca, ora deformato facendo una linguaccia. Ogni incarnazione in scena di Pinocchio sarà probabilmente sempre parziale e difettosa, ma ora ci sembra di vedere i poli estremi del personaggio congiungersi per qualche attimo. Qui materia infantile e follia inorganica convivono, buffoneria popolaresca e impressione metafisica non si escludono.
A numero concluso, Totò deve riprendere la sua fuga. Ma tolto il naso finto, trova il tempo per un sorriso verso i bimbi che lo applaudono: appoggiato contro la parete come il Pinocchio senza vita dell’ultimo capitolo.

Marciando all’indietro dalle tre ore della versione latelliana, passando per la cupa ora di Bene, siamo arrivati al minuto scarso di Totò. Quale scheggia del burattino sembra andare più lontano? Forse Pinocchio – libro e personaggio – tende a sconfiggere sulla scena traduzioni amplificatrici o debordanti, manifestandosi meglio in epifanie sintetiche o perfino occasionali.
E così riconosciamo meglio il “semplice pezzo da catasta” nella sottrazione simbolica, condita col guizzo esatto del grande attore e del “viso antico”. Quel grosso tronco che sopravvive fuori sipario ci porta al Carmelo Bene legnoso e ironico, dove la phoné sfida e serve Collodi, per farci raggiungere infine, divertiti e abbacinati, il lampo del Totò burattino.

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