
Klp ha incontrato Antonio Latella, in concomitanza con il debutto dei primi due capitoli di “Francamente me ne infischio”, Twins e Atalanta, da poco presentati anche a Milano al Teatro I. La chiacchierata è stata densa: al regista abbiamo chiesto di parlarci del suo recente progetto scenico con la nuova compagnia Stabile/Mobile, ma anche il suo pensiero sullo ‘stato dell’arte’ (e della critica)…
Cominciamo parlando di “Francamente me ne infischio” : qual è il discorso che stai tessendo sull’America? E perché proprio il ricorso a “Via col vento”?
Beh’ potrebbe sembrare una ‘furbata’ la scelta di questo titolo, ma “Via col vento” rappresenta il sogno americano: se pensiamo alle nostre mamme, alle nostre nonne, è stato un affresco che le ha incantate per molto tempo, per di più trovando in Rossella una figura in cui identificarsi. Leggendo il romanzo invece si scopre che Rossella non è per niente un’eroina positiva, a parte questa tempra che ha di andare avanti comunque e sempre, che la contraddistingue: rispetto alle altre figure che restano attaccate all’Ottocento, lei rappresenta il Novecento americano che si affaccia. A noi è arrivato appunto questo meraviglioso incanto di celluloide che ha rappresentato un sogno. Mi sono chiesto più volte come poter raccontare, attraverso Rossella, il ‘sogno’ e quindi l’intrattenimento, e pian piano farlo diventare quello che è… Ciò che io conosco dell’America è un sogno, è come me la raccontano, non è quello che è. Il lavoro che stiamo facendo è capire dove stanno invece gli appuntamenti con la realtà: Rossella si presta al gioco, diventa una sorta di identificazione con l’America, infatti abbiamo scelto di farla interpretare ogni sera a un’attrice diversa. La Rossella che vedrai stasera (in Twins) è ancora incastrata nel sogno, a cui partecipano diversi archetipi del mito americano.

Il desiderio di fare questo discorso nasce adesso proprio perché è un momento in cui siamo ormai disincantati su questa narrazione del mito americano?
Il mito americano è finito da un bel po’, il sogno è rappresentato dall’Oriente ormai, ma se pensiamo agli italiani che emigravano, per noi ha rappresentato un momento storico: ricordo che mia zia arrivò dal Canada e quando vide che anche noi avevamo il frigorifero a momenti piangeva perché pensava che non l’avessimo. Nel dopoguerra l’America ha condizionato politicamente l’andamento del nostro Paese, per non parlare del grande patto che c’è stato anche con la mafia… Oggi il mito americano è finito perché abbiamo aperto gli occhi e ci siamo accorti che è finito l’ultimo dio che avevamo, quello del capitalismo: ci stiamo svegliando e ci siamo resi conto che siamo tutti con le toppe sul sedere. Ora c’è bisogno di concretezza, c’è poco spazio per sognare: per alcuni versi è brutto, ma probabilmente ci può aiutare a creare un nuovo immaginario. Quindi sicuramente era importante provare a tracciare questo affresco, anche in modo giocoso, e attraverso vari linguaggi teatrali, da quello più borghese a quello più sperimentale, o del teatro danza…
A proposito dei linguaggi utilizzati: in “Atlanta” hai scelto di coinvolgere direttamente il pubblico in sala. Perché?
È una cosa che ultimamente faccio, e mi piace molto, riuscire a rendere il rito una questione collettiva, dichiarare subito che è rappresentazione e che nel gioco della rappresentazione lo spettatore vale quanto l’attore: lavori così sono condizionati moltissimo dal pubblico, se il pubblico non ci sta non funzionano. Per questo è necessario rompere la quarta parete. Ho già fatto questa scelta, soprattutto nel Don Chisciotte, in modo molto simile. Qui è interessante, per me, che Reth o Aslhey sono qualcosa che non esiste, sono archetipi nella testa di Rossella, sono uomini che rappresentano qualcosa. Cercarli tutte le sere tra il pubblico e farli diventare quello che l’attrice sceglie scardina la dimensione che c’era prima e la fa diventare di colpo teatro di coinvolgimento, quasi teatraccio, di coinvolgimento da strada: mi piaceva molto creare subito questa rottura.
Parlando del metodo di lavoro, la mia sensazione – soprattutto nelle scene iniziali – è che ci siano azioni nate da improvvisazioni. E’ così?
È un lavoro che stiamo facendo a stazioni, non abbiamo un mese di prove e poi il debutto, ci stiamo dando degli appuntamenti proprio per cercare ogni volta un linguaggio diverso, metterlo in discussione e verificarlo. Sì, quello che hai visto ieri è un lavoro che è nato da una fortissima improvvisazione, ovviamente guidata. La frase che torna tanto nel testo, “sono stufa di essere una mosca, voglio diventare una farfalla”, cioè non essere più una vedova, chiusa, tutta in nero, ma voler diventare qualcos’altro, è in tutte le teste di queste donne, solo che alcune hanno il coraggio di dirlo e altre no: su questo abbiamo portato l’improvvisazione, che poi è diventata grammatica di palcoscenico.
Te lo chiedevo per parlare della costruzione dello spettacolo, che in questo caso riguarda anche l’aspetto drammaturgico, costruito insieme a Federico Bellini e Linda Dalisi, i tuoi dramaturg.
È come svuotare un sacco e riempirlo ogni volta, mettere insieme le cose e creare lo spettacolo nella totalità: verifichiamo subito quello che un elemento drammaturgico comporta in scena, ed è meraviglioso poter creare così, perché purtroppo nel sistema istituzionale non lo puoi fare. Lì lo spazio per questo non c’è, devi arrivare e centrare subito l’obiettivo; in questo modo invece ti puoi permettere gli errori, che sono necessari alla ricerca.
Quello che dici si lega proprio alla domanda che volevo farti: cosa ti ha spinto a costituire la compagnia Stabile/Mobile?
Stabile/Mobile nasce dopo l’esperienza napoletana, che è stata importante per me, estremamente formativa. Soprattutto mi ha dimostrato che le cose si possono fare, e si può fare un cambiamento se le persone lo vogliono. Io non credo che la gente voglia fino in fondo un cambiamento: l’esperienza napoletana lo conferma, perché per fare un cambiamento ci vuole tempo, non puoi pensare che in un anno stravolgi le cose e funziona. Il primo anno noi siamo stati molto duri, abbiamo rotto le formule d’abbonamento, fatto drammaturgia contemporanea, anche cose brutte, abbiamo abbassato ogni tipo di produzione, l’utilizzo del soldo pubblico, scenografie con pochissimo, dimostrando che si può fare.
E allora cos’è che non ha funzionato?
Quello che non ha funzionato è una questione prettamente economica: io ho trovato artisti meravigliosi che hanno accettato la sfida entusiasti, però nessuno di loro è stato pagato, nonostante le paghe fossero molto basse, perché i soldi sono stati fermati della Regione, debiti del teatro precedenti… Anche se lo so che si va avanti così perché sennò tutto si ferma, dopo lo sforzo che hanno fatto artisti e tecnici senza essere stati pagati, annunciare la stagione era come dire ‘ i soldi ci sono’ e invece, non ci sono. Quindi ho dovuto fermarmi.
Non c’è stata la volontà di trovare questi soldi, per il tipo di esperimento che veniva condotto oppure…?
No, non è quello, non c’erano proprio perché c’è stato un blocco della Regione, c’è stato un cambiamento di partito, tutto ha svoltato verso destra. Ma non ne faccio una questione di destra o sinistra, perché strafalcioni li ha fatti anche la sinistra nella cultura, quindi i debiti che c’erano erano i debiti della sinistra, la destra giustamente fa una politica assurda: ‘la cultura non porta soldi’. Invece, in qualsiasi altro Paese, la cultura è un’industria, un biglietto da visita, un modo per confrontarti con gli altri Paesi. Detto questo, così è nata Stabile/Mobile, perché le persone che hanno creduto totalmente in questo progetto sono qui con me. Mentre prima la stabilità era stanziale, adesso è continuare a cercare, trovare altre vie di racconto.
Passiamo ai progetti futuri: oltre ai prossimi tre capitoli di “Francamente me ne infischio” farai anche “Un tram che si chiama desiderio” di Williams.
Sì, io li metto insieme come lavori perché, come ti dicevo, è la possibilità di lavorare su un tema, sulla letteratura americana, e attraverso lo sguardo di personaggi femminili. C’è poi una coincidenza che mi affascina: Vivien Leigh ha interpretato Rossella vincendo un Oscar ed è stata anche Blanche nel film, vincendo un altro Oscar, e poi impazzisce credendo di essere Blanche. Ed è quello che è successo al sogno americano, vivere l’illusione di un sogno, perdere il contatto con la realtà, non sapere più riconoscersi nella vita di tutti i giorni.
I personaggi del “Tram” sono esseri feriti, come se gli fosse stato tolto un pezzo di cui sono continuamente in cerca, ed è un po’ quello che ci succede adesso. È come se ci mancasse sempre qualcosa, perché non abbiamo fede, non crediamo più nella politica, sono crollati tutti gli ideali e anche il capitalismo che era il mito degli anni Ottanta-Novanta.
Hai parlato della cultura come confronto; in questo senso ci sono artisti che ti interessano, che magari possono nutrire il tuo fare anche essendo molto diversi da te?
Io sono estremamente curioso, sono affascinato dalla vita, non solo dagli artisti, e questo mi mette in condizione di rubare tantissimo. Procedo dicendo ‘il tema di quest’anno è questo’, poi posso fare uno spettacolo o cinque ma è un unico studio. E ogni volta che apro un tema scopro dei nuovi artisti, registi ma anche fotografi, pittori, stilisti, cose nuove che portano materiale allo studio. Se vuoi dei nomi… E’ difficile, se devo fare nomi di registi guardo fuori dell’Italia. Qui ci sono nomi che hanno fatto cose importanti, che hanno svoltato l’idea di regia, uno per tutti è Castellucci, estremamente diverso e lontano da me. Lui è arrivato in un momento in cui c’era davvero bisogno di una svolta, e l’ha portata fino in fondo. Forse ha creato poi una serie di altre squadre che si sono ispirate a lui, non avendo la sua stessa profondità e preparazione. Castellucci sa benissimo che cos’è una grammatica di palcoscenico, mentre spesso quelli che tradiscono non sanno cos’è, e quindi restano un po’ ibridi, un po’ vuoti. Per Castellucci la parola regista secondo me è riduttiva, lui è qualcosa d’altro, ha saputo creare una lingua.

E di cosa ci sarebbe bisogno artisticamente adesso in Italia?
I vecchi maestri non hanno saputo creare gli eredi, è una cosa che non è mai successa, pensiamo sempre tutti un po’ troppo al nostro ‘orticello’, quindi non c’è un vero scambio, una vera comunicazione. Personalmente in questo momento io sono più tradizionale, credo che sia arrivato il momento di tornare all’attore e al testo, alla drammaturgia, perché sono comunque l’abc, e in alcuni casi ci siamo veramente allontanati tantissimo, e il pubblico fa fatica a riconoscere certi linguaggi. A me piace pensare che la mia ricerca è sull’attore e sull’autore, e auspico che anche nel teatro visivo, anche nel teatro di non recitazione, i più giovani recuperino la forza della parola, che è forse il dono più prezioso che abbiamo.
Nei tuoi ultimi lavori, nel Koltès presentato a Prospettiva ma anche nella tua direzione del Teatro Nuovo, è chiaro che hai messo al centro proprio questi due aspetti.
Sì, è un punto, poi ho fatto anche lavori diversi, ad esempio Medea. A me piace dire che il teatro è teatro, basta con le etichette teatro off, teatro-danza, teatro di ricerca, il teatro si può distinguere in classico e contemporaneo.
A proposito dei linguaggi, però, oggi ci sono forme che vanno più verso l’arte visiva.
Sì, e mi piacciono anche, però mi chiedo dov’è il limite: perché non ti confronti direttamente con l’arte contemporanea? Il palcoscenico è il luogo che accoglie le arti, però credo che il teatro abbia più a che fare con l’artigianato, sono gli altri che devono definire artistico il tuo lavoro. Se fai una performance dichiarando di essere un artista, ti devi confrontare in un territorio che è molto duro, spietato, a differenza di quello del teatro che chiude un occhio, accoglie.
Dal teatro che accoglie a quello occupato: cosa pensi della situazione al Valle?
Penso che al Valle stanno facendo qualcosa di estremamente importante, ma arriverà un momento in cui dovranno decidere cosa farlo diventare. Il Valle occupato ha proposto qualcosa che noi in qualche modo avevamo proposto a Napoli, nuova drammaturgia, spazio ai giovani, quindi cose che in qualche modo conosco molto bene, e sono assolutamente dalla loro parte. È interessante capire cosa diventerà questo movimento; credo che se c’è un’onestà di fondo, e c’è, può portare a una nuova modalità di gestione, una grande coalizione di gestione di un luogo, che può essere molto affascinante.
E la critica teatrale, di cui tanto (forse troppo) oggi si parla?
Io penso che la critica teatrale non esiste più, un po’ come tutti i lavori in Italia, perché i critici sono anziani, sono stanchi, vedono troppa roba. Se non riconoscono il linguaggio allora è un brutto spettacolo, vogliono vedere solo le cose che interessano a loro, che possono riconoscere. Come vedi i giovani fanno fatica, sulla carta stampata non c’è un giovane che scrive e quindi non c’è uno che rappresenta l’oggi, che venga formato per rappresentare l’oggi. Lo spazio per la critica teatrale è pochissimo, anche quando ci sono recensioni positive non c’è mai spazio per una vera discussione, un vero confronto. Mi sembra più interessante leggere su internet, seguire i ragazzi giovani, trentenni.
Quindi ha ancora una funzione la critica.
Ma… sì, oggi la critica potrebbe ancora avere una funzione, perché è l’unico tramite che c’è tra chi non va a vedere lo spettacolo e colui che lo vede. Il compito è riuscire ad avvicinare il pubblico, il compito del critico è quello non solo di recensire positivamente o negativamente uno spettacolo, ma anche di consigliare al pubblico perché andarlo a vedere o perché non andarci; rappresenta il ponte tra il pubblico e i teatranti, ma soprattutto con la gente che non va a teatro e invece questo non accade. Penso che questo ormai non lo faccia più nessuno.