Il tempo passa e i teatri rimangono chiusi per l’emergenza sanitaria. Le chiese riapriranno forse il 18 maggio, certo non senza polemiche; su cinema e teatri si fa qualche vaga ipotesi per giugno, ma ci sono teorie anche molto più pessimiste. Come sarà il futuro?
Nel 2017 una ricerca della CIGL, “Vita da artisti”, faceva già emergere dati allarmanti, dei quali forse ci si scorda un po’ quando, comodamente seduti in poltrona, ci si gode un bello spettacolo. Ebbene, dietro alla bellezza dell’arte ci sono percentuali, dati e molte persone che vivono una condizione lavorativa pessima, fatta di sacrifici enormi.
È vero, non bisogna generalizzare, ci esorta il professor Antonio Taormina, docente di Progettazione e gestione delle attività di spettacolo all’Università di Bologna: ci sono compagnie dalla forte etica che garantiscono ai propri lavoratori delle condizioni di lavoro professionali. Eppure in “Vita da artisti” ci sono dati che parlano da soli, come quello che ci racconta che appena il 20% degli intervistati lavora con continuità, che la pluri-committenza è una prassi consolidata, che i contratti più frequenti sono quelli temporanei.
Per non parlare di attori e registi professionisti ascoltati in questo periodo, che raccontano di prove non pagate, o pagate a metà, di rimborsi spesa non previsti durante le tournée, di paghe ai minimi sindacali che non tengono conto dell’arco di un’intera carriera…
Per approfondire questi temi, abbiamo interpellato proprio il professor Taormina, una voce fra le più competenti del settore, analista culturale oltre che docente.
Le politiche del lavoro tengono in giusto conto le specifiche particolarità del settore dello spettacolo dal vivo, così atipico rispetto ad altri settori?
Con le ultime vicende legate al Coronavirus è emerso in maniera chiara che non esistono delle politiche del lavoro specificatamente mirate alla tutela dei lavoratori dello spettacolo dal vivo, a differenza di come succede in altri Paesi. Sarebbe utile ed interessante valutare come hanno affrontato questo tema in Francia o in Belgio, che sono tra i Paesi più avanzati da questo punto di vista.
Considerando il peso che lo spettacolo ha nel nostro Paese, si auspicherebbe una maggiore attenzione su politiche specifiche, politiche che non riguardano unicamente il Ministero della Cultura, ma anche il Ministero del Lavoro e in maniera collaterale il Ministero dell’Università, vista la forte connessione tra formazione ed occupazione.
Cosa pensa della ricerca nazionale Vita da artisti a cura della CGIL?
La ricerca, del 2017, disegna in maniera puntuale uno spaccato del settore dello spettacolo dal vivo molto realistico del lavoro degli artisti in Italia. Uno scenario rappresentativo di uno stato di difficoltà del mercato del lavoro, che non è molto mutato in questi ultimi anni. Questa ricerca sarebbe da prendere a modello per analizzare anche altre figure professionali, ma andrebbe costantemente aggiornata. La carenza in Italia di attività di ricerca di questo tipo, legate allo spettacolo, rappresenta un limite.
Dal dossier emerge che solo il 25% dei professionisti vengono pagati puntualmente, secondo quando concordato, e che una gran parte di loro si dedica anche alla progettazione, gestione ed organizzazione degli spettacoli. Cosa implica tutto ciò a livello di mercato?
Ci sono molte realtà in cui la progettazione, la gestione e l’organizzazione non ricadono sugli artisti. Quel contesto riguarda prevalentemente le piccole formazioni. Fatta questa premessa, devo porre una questione di fondo: chi sono i professionisti?
Io ritengo che professionista sia colui che del suo mestiere vive. È una visione molto prosaica, ma realistica. Spesso si parla di professionisti in termini di capacità artistiche, ma se parliamo di mercato del lavoro, ed in questo momento di crisi se ne parla spesso, allora bisogna puntualizzare alcuni aspetti. Chi ad esempio fa alcune recite l’anno non è un professionista dal punto di vista del lavoro, anche se lo è dal punto della preparazione, del background culturale.
In questo momento si dovrebbe ritornare sulla definizione di professionista: è una questione di fondo. In particolare, laddove le normative prevedono che si finanzino specificamente attività professionali, necessita chiarire cosa si intende per professionale.
Stando ai dati dell’Inps, solo il 10% dei lavoratori dello spettacolo ha un contratto a tempo indeterminato, e le figure più tutelate sono i direttori dei teatri e gli amministrativi. Questo cosa implica?
Gli amministrativi svolgono più giornate lavorate annue, ma non perché siano più tutelati. Chi ha un contratto a tempo determinato come amministrativo ha le stesse tutele di un attore, la differenza è che le figure amministrative svolgono più giornate, hanno una continuità maggiore… Questo rientra nel tema centrale dell’organizzazione del lavoro.
C’è una maggiore rotazione delle figure artistiche, al termine di una produzione un attore può anche non essere riconfermato, mentre la figura amministrativa resta la stessa. Questo è un fatto legato alla tipologia del nostro lavoro.
Più che alle figure professionali, bisogna fare riferimento ai contratti nazionali di categoria. Ad esempio il contratto delle fondazioni liriche prevede contratti a tempo indeterminato, e non solo quello. È comunque vero che solo il 10% circa dei lavoratori vengono assunti a tempo indeterminato. Se un attore lavora stabilmente 250 giornate l’anno è di fatto tutelato. Il problema non è “determinato o indeterminato”, il problema è la qualità del rapporto di lavoro.
Il conteggio delle giornate annue diventa complesso, dato che spesso le produzioni, anche in contesti professionali di alto livello, non pagano le prove o ne pagano la metà.
Questo è drammaticamente vero. È il tema dello sfruttamento degli artisti. In molti accettano di non aver le prove pagate, accettano di lavorare senza le condizioni ottimali. Io rispondo: non accettate modalità non corrette, non è opportuno accettare comunque. Se il 90% delle persone le accettano, diventa un sistema.
Apro una parentesi, diverse iniziative si avvalgono di molti volontari. Il volontariato è un fenomeno importante, che va sostenuto, ma va inquadrato nella giusta misura: non deve sostituire l’attività professionale. Sono cose diverse, bisogna distinguere. Se un progetto sopravvive perché è tenuto in piedi dai volontari c’è qualcosa che non va nell’impresa. Nella pianta organica non si dovrebbero coprire i ruoli di figure professionali con dei volontari, e lo stesso discorso vale per gli stagisti…
In media i lavoratori dello spettacolo accumulano 34 giornate di lavoro retribuito all’anno: cosa pensa di questo dato?
Il dato è in parte falsato dal fatto che molti non si vedono retribuite tutte le giornate lavorate. Ciò non toglie che se anche aumentasse il dato, ad esempio del 50%, il numero delle giornate annue rimarrebbe comunque basso. Quest’indicatore è quello più utile per capire esattamente di cosa stiamo parlando, per capire lo stato di salute dei lavoratori del settore. Va detto che ci sono persone che lavorano continuativamente e altre che lavorano molto saltuariamente; c’è anche chi ha fatto un solo giorno la comparsa in un film. Quindi si ritorna al discorso di prima. Il numero delle giornate medie lavorate è rivelatore di un sistema fragile che non affronta le esigenze professionali di questa categoria.
Si stima che gli artisti che riescono a fare della propria arte un lavoro prevalente siano all’incirca 40 mila persone.
Questo dato si basa sul numero delle unità lavorative. Conferma che c’è una grande frammentazione e che molte persone lavorano in maniera estremamente saltuaria.
Quali politiche culturali si potrebbero adottare per dare un maggiore impulso all’occupazione?
Io preciserei, quali politiche culturali, ma anche quali politiche del lavoro?
In questo momento, più che aumentare il numero degli occupati, il tema è un altro: come migliorare la qualità del rapporto di lavoro in termini di continuità e stabilità.
Oggi è più proficuo aumentare il numero dei lavoratori che svolgono 34 giornate riconosciute o ha più senso fare in modo che quelle 34 giornate diventino almeno 70?
Le istituzioni che finanziano le attività dovrebbero plausibilmente premiare quelle imprese che si pongono tra gli obiettivi primari la qualità e la continuità del rapporto di lavoro (le norme che attengono la questione, laddove presenti, sono poco vincolanti, in particolare per gli artisti).
Non voglio generalizzare, molte compagnie già lo fanno, ci sono esempi virtuosi, in tutta Italia. Va comunque evidenziato che la continuità del rapporto garantisce qualità, ma riguarda anche l’etica delle imprese.
A questo proposito vorrei ricordare che il testo del 2017 del cosiddetto “Codice dello Spettacolo” (il cui esito finale non è giunto a compimento), voluto dall’allora ministro del Beni e delle Attività Culturali Dario Franceschini (ora tornato titolare del dicastero, a seguito degli ultimi cambi di governo) prevedeva il riordino e l’introduzione di norme per disciplinare il rapporto di lavoro nel settore dello spettacolo in maniera unitaria e sistemica. Si spera che quell’impianto venga riproposto.
Si può dire che la disoccupazione sia un problema strutturale di questo settore? Secondo la ricerca, il 40% dei rispondenti non ha usufruito dell’indennità di disoccupazione perché non ha maturato i requisiti necessari, mentre un 15% circa non ne ha usufruito perché non sapeva nemmeno di averne diritto.
Che non sapessero di averne diritto, è un dato che mi ha molto sorpreso quando lessi la ricerca. È il segnale che molte persone non hanno consapevolezza del proprio ruolo, della propria professione, e che possiedono una scarsa informazione su quelli che sono gli aspetti contrattuali, gli aspetti tecnico-amministrativi, fiscali e quant’altro. C’è una sostanziale disinformazione su questi temi.
La possibilità di avere una pensione adeguata sembra un’utopia per molti artisti. Cosa implica tutto ciò?
Ci sono lavoratori che, quando arrivano in età pensionabile, scoprono di non aver maturato i requisiti e questo è un vero dramma.
Se non ci si è interessati su quali sono i doveri e i diritti, alla fine i rischi sono quelli, e se ne pagano le conseguenze.
Va detto, a difesa dei lavoratori dello spettacolo, che per certi settori, si pensi ai dipendenti pubblici, è molto più facile comprendere i percorsi che portano alla pensione. Lo spettacolo è un settore molto particolare, per certi versi anomalo, e chi ci lavora deve saperlo.
Quasi il 90% degli artisti non sono iscritti a un sindacato. Come legge la scarsa partecipazione degli artisti alle attività sindacali?
È sempre inopportuno generalizzare. Alcune categorie sono molto sindacalizzate, si pensi ai dipendenti delle Fondazioni Liriche, altre categorie molto meno. Bisognerebbe aprire un discorso più complessivo sul ruolo che potrebbero/dovrebbero avere i sindacati in questo settore specifico. La scarsa partecipazione alle attività sindacali (fenomeno presente non solo qui) parte anche da una scarsa consapevolezza del proprio ruolo; più in generale c’è poca consapevolezza della centralità del ruolo della cultura nel nostro Paese.
Questi temi dovrebbero essere maggiormente affrontati nelle scuole di teatro, nei conservatori, nelle accademie…
Quali sfide dovrà affrontare il settore dello spettacolo a seguito del Coronavirus?
Quanto pubblico tornerà a teatro? Il grande problema di oggi, alla luce del disastro che stiamo tutti attraversando, è questo. È qualcosa di assolutamente allarmante, che non avremmo mai previsto di dover affrontare sino a poche settimane fa.
Quanto pubblico (che già era poco rispetto all’intera popolazione, circa il 20%) tornerà a vedere gli spettacoli? E in quanto tempo? Un recente studio realizzato da Agostino Riitano fornisce un quadro della situazione. Complessivamente abbiamo una risposta convinta su un ritorno immediato di circa il 50% degli spettatori.
In passato forse non si è fatto abbastanza. Ora dobbiamo ripensare la relazione tra domanda-offerta e il nostro modo di rapportarci con il pubblico. Ciò che è stato fatto (o non è stato fatto) prima ci serve come punto di riferimento per capire come ripartire.
Cosa pensa degli appelli che sono stati fatti in questo ultimo periodo?
Gli appelli che sono stati fatti, e sono tanti, sono in buona parte condivisibili. Condividono un assunto di base, i rischi per l’occupazione Ma questa situazione sussisteva ancor prima dell’emergenza, l’emergenza l’ha evidenziata in maniera eclatante.
Le istituzioni stanno cercando di dare risposta a questa e ad altre istanze.
Come commenta il decreto Cura Italia in relazione al mondo dello spettacolo dal vivo?
Il decreto Cura Italia del marzo 2020 è stato un primo segnale. Sono stati attivati gli ammortizzatori sociali; l’Art. 38 del decreto prevede che i lavoratori non dipendenti possono usufruire di un bonus di 600 euro purché abbiano lavorato almeno 30 giornate nel 2019, mentre l’Art. 89 ha istituito il “Fondo emergenza spettacolo, cinema e audiovisivo”. Fermo restando quanto ci siamo detti prima, aver lavorato 30 giornate starebbe dunque a certificare che si è inseriti nel mercato del lavoro dello spettacolo. Anche dal decreto Cura Italia ricaviamo dunque indicazioni sullo stato di salute del sistema dello spettacolo. Sono state avviate misure a favore delle imprese non ammesse in precedenza al finanziamento statale che abbiano realizzato un numero minimo di recite e degli autori con un basso reddito. E sono in arrivo altri provvedimenti.
Si sta comunque affrontando una situazione emergenziale, di assoluta gravità. Da più parti si auspica che questa crisi si trasformi in una opportunità per ripensare e valorizzare il nostro sistema dello spettacolo secondo una visione sistemica, ponendo tra le priorità l’occupazione, la tutela e il benessere dei lavoratori.