L’intervista al direttore artistico di Teatro La Ribalta, a dieci anni dalla sua fondazione
Se è vero che «da nessun luogo, se non dai margini, può venire la peste della rivolta» (Antonin Artaud), allora Antonio Viganò, fondatore a Bolzano del Teatro La Ribalta, rappresenta l’emblema di un’arte che valorizza il dolore della ferita per smuovere desideri e volontà, e porre lo sguardo verso un altrove indefinito.
Da dieci anni Viganò e La Ribalta – pluripremiata cooperativa professionale di attori in condizione di disagio psichico e fisico – prefigurano un teatro fisico aperto e libero.
La Ribalta riconosce nell’arte «lo specchio delle nostre malattie, dei nostri incubi, delle nostre tragedie». Viganò cita il filosofo coreano Byung-Chul Han: «L’arte, per manifestarsi, ha bisogno di ferita, altrimenti non c’è poesia, non c’è arte, non c’è la possibilità di interrogarsi […]. Si potrebbe anche dire che la ferita è il momento di verità del vedere».
Viganò, tu non sopporti la definizione di “teatro fatto dai disabili”. Perché?
È una definizione vecchia, impropria, pericolosa. Sembra che niente sia cambiato in tanti anni. Ho iniziato nel 1996 con la Compagnie de l’Oiseau Mouche. E già a quei tempi, ci infastidiva la definizione “teatro fatto dai disabili”. Ma com’è possibile che accanto alla parola teatro si possa indicare la condizione patologica degli attori? Se ho sbagliato e ho alimentato questa semplificazione vi chiedo scusa.
Credi che si faccia troppa retorica sul concetto di “diversità”.
Ho più volte ribadito di voler appartenere alle diversità del teatro e non al teatro dei diversi. Questa definizione “teatro dei diversi” è una croce, un purgatorio del teatro, una gabbia che non serve né al teatro né ad una nuova cultura inclusiva. Diversi da cosa, da chi? Non credo alla celebrazione e alla consacrazione dell’handicap. Penso che un attore “di-verso” non è solo la sua malattia, ma può e deve essere altro. Inchiodare gli esseri umani alla loro condizione significa non concedere loro un’espressione. Esprimendoci, noi non diciamo semplicemente ciò che siamo, ma abbiamo la possibilità di trascenderci, di travalicare noi stessi. Inchiodare l’interlocutore alla sua condizione è la mossa dell’imperialismo culturale, che esotizza l’altro.
Dunque non ha senso neppure parlare di temi centrali nel tuo teatro?
Ho una sola risposta: il tema è il teatro, la sua funzione e il suo senso. L’handicap e la disabilità sono nello sguardo dell’altro, del critico e a volte, sempre meno spesso, nello sguardo dello spettatore.
E allora il teatro sociale?
In quello che definiamo oggi “teatro sociale”, la parola sociale è diventata il sostantivo e la parola teatro è diventata aggettivo, e non sempre qualificativo. Vale allora la pena di ricordare che, come nessun teatro è fuori dal sociale, così nessun teatro è fuori dall’arte.
Esiste nel mondo teatrale una tirannia della normalità che separando e isolando alcune forme teatrali non conformi, le emargina culturalmente e socialmente. Ma perché io sono collocato dentro lo steccato del teatro dei disabili? Perché noi con tanti altri, siamo ancora percepiti come un teatro a parte, sempre “speciale” e non una parte del teatro? Anche i Premi che il “teatro” ci ha assegnato, hanno, nella maggioranza dei casi tutti la definizione di “speciale” all’interno della motivazione.
Questo mi fa pensare che la rivoluzione culturale sul tema della diversità fatica a prendere spazio e a farsi strada, sia nella società che nel mondo del teatro.
In quale teatro credi?
Nella diversità del teatro, e non nel teatro dei diversi. Per fare in modo che tutte queste esperienze, che alcuni chiamano “teatro sociale”, altri “teatro sociale d’arte”, altri ancora in altri modi, diventino un patrimonio del teatro-tutto, e non vengano chiuse in una casella che è pericolosa perché rischia di emarginarlo, di renderlo minoritario, di ridurre la sua portata culturale, la sua forza rivoluzionaria e destabilizzante.
Non facciamo che ribadire l’importanza del linguaggio. Ma trovare le parole giuste è sempre complesso.
Il teatro non ha bisogno di steccati o definizioni. C’è un’egemonia che va rotta su alcune parole, perché continuare a delimitare una forma di teatro (che fa il suo mestiere di teatro), mi sembra un modo per impoverirla e sminuirla nel suo valore artistico, per affidargliene un altro. Come saggiamente ci ricorda Piergiorgio Giacché, che su questi temi ha sempre uno sguardo severo ma lucido, il teatro sociale diventa, dentro gli steccati e le caselle, solo un fenomeno “socialmente utile” dove si è arrivati a dare, con estrema disinvoltura, dignità artistica a tutti i diversi e dignità politica a tutti i teatri. Così facendo la diversità del teatro rischia di smarrirsi nel mare delle diversità verso le quali ha guadagnato credibilità.
Verso quali modalità di rappresentazione si sta andando oggi? C’è una differenza rispetto al passato?
Scrive Vittorio Giacopini in un breve saggio sull’arte e la critica: «Pensare che l’arte possa “sanare”, guarire, indirizzare, guidare è furbesco, ipocrita, consolatorio. L’artista si sentirà anche tanto socialmente utile e certamente piacerà pure, venderà pure, ma sta rinnegando il suo compito o, per dirla con Goethe, la sua “missione”[…] [che è quella di] creare confusione e disagio instillare dubbi, turbare assetti e ordini dati, sabotare. Chiedergli di rassicurare, indirizzare e guarire è da filistei».
Agendo così il teatro non rischia di “svendersi al sociale” ma riscatta queste alterità attraverso la propria. È un teatro vivo, alla ricerca di nuove sfide e nuove scoperte. Cerca diversità etniche, sociali, culturali, non per normalizzarle ma per moltiplicarle. E lo fa con i suoi strumenti di sempre: la sua follia, la sua libertà, la sua infinita varietà di proposte e di dubbi, di provocazioni assurde e indefinibili. E con il rigore teatrale. Non pensa alla terapia perché questo lo costringerebbe nel limite della malattia, della patologia, mentre è più proficuo e utile che il teatro resti nell’inesplicabilità dell’arte, che non ha confini.
Prima alludevi a una maturità raggiunta dal pubblico e spesso assente nella critica.
L’atteggiamento del pubblico è spesso determinato da chi organizza e accoglie le opere di teatro che sono portatrici di nuove visioni e nuove identità. Se quegli spettacoli li si toglie dal contesto teatrale “normale” per inserirli in progetti definiti “speciali”, oppure in gabbie di genere, o in contenitori protettivi, fornendo una lente speciale per leggere quello che si andrà a vedere, lo spettatore sarà condizionato, accoglierà quello che vedrà e quello che potrà sentire emozionalmente con un filtro. Che deforma inevitabilmente la sua percezione.
Voi che pubblico incontrate?
Un pubblico che ci accoglie, si stupisce, cambia idea, riconosce e apprezza la qualità artistica del lavoro, trattiene il fiato di fronte ad attori capaci di raccontarsi e raccontare come raramente si vede a teatro. Non abbiamo mai trovato un pubblico teatrale indifferente al nostro lavoro. Tutte le volte che è arrivato ad incontrarci con aspettative e lenti “speciali”, domandandosi “cosa mai vedremo”, è poi uscito trasformato, sorpreso e forse con anche un po’ di vergogna per il pregiudizio con cui era entrato.
Qual è dunque il nucleo del vostro teatro?
L’unione tra dimensione estetica e dimensione etica. Questo ci aiuta a fare un’altra distinzione: quella tra teatro e spettacolo. Lo spettacolo ha bisogno di spettatori, il teatro di testimoni. Ci piace pensare che quello che chiamiamo genericamente “il pubblico” quando incontra una comunità di attori come la nostra, diventi “un testimone” di una scommessa vinta, di una trasfigurazione, di una rottura, di un atto che cura.
Purtroppo i tanti “spettatori” del teatro definito pubblico, dei teatri Nazionali, dei teatri Stabili, noi non possiamo incontrarli, perché ci è negata la possibilità di essere dentro quelle programmazioni. Questo nonostante ci venga continuamente riconosciuta una qualità artistica, e si continuino a spendere parole gratuite sulla necessità dell’inclusione, del diverso. Un teatro pubblico dovrebbe essere di tutti, aperto alle tante forme d’arte, ma anche alle tante possibili forme di vita, magari non omologate e asimmetriche, con infinite sproporzioni fisiche e mentali ma che hanno diritto di essere rappresentate, conosciute, giudicate. Questo teatro, che vi piace definire “dei diversi”, merita di essere accolto soprattutto quando usando l’arte del teatro è capace di rompere i confini della sofferenza per esprimere bellezza, felicità e infinite varietà di proposte. Sono questi percorsi di trasformazione della coscienza collettiva che appartengono all’arte.
Su questi temi sentiamo ancora il bisogno di riflettere. È come se il teatro si riappropriasse della sua unicità, trasformandosi in quel luogo mitico dove la singolarità e la meraviglia da cui siamo partiti in questa discussione si accoppiassero, attraverso opere che diventano veri e propri atti poetici e politici di eversione culturale.
Noi siamo lontanissimi da qualsiasi celebrazione del diverso o delle diversità. Noi cerchiamo di svelare, non di confermare. Vogliamo rompere il paradigma, mostrare un “altro possibile”. Trasfigurare il soggetto per passare da una sola “condizione” a una capacità di “comunicazione” risonante. Da questa straordinaria potenzialità – e dai mille fallimenti che ne derivano per tutti noi – nasce l’indignazione radicale verso lo sfruttamento falsamente pietistico del dolore che a volte traspare in qualche scena, magari scimmiottando l’ipocrisia televisiva, il voyeurismo culturale o il ricatto di una falsa pietà.