Anche per quest’anno, la riserva Apache chiude i battenti.
Tra gli ultimi spettacoli cui abbiamo assistito “HeartBreak Hotel” di Snaporaz, una fresca produzione AvTurné, su un amore feroce e profondo che il pubblico vive direttamente a contatto con gli attori. E poi “Overlook Hotel” del Gruppo Nanou, un altro albergo, un edificio immaginario che lascia spazio alla fantasia e ci trasporta in una dimensione altra, in cui tutto è lasciato all’interpretazione.
Infine l’ultimo spettacolo, “aVvento – #2 Bestiale Copernicana” di Teatri inGestAzione, secondo episodio di un progetto alla ricerca di “quei ribaltamenti, sovvertimenti del nostro percepire, quelle visioni copernicane, bestiali, che hanno liberato una nuova possibilità di intenderci uomini e di progettare il nostro agire”.
Se il giudizio positivo per tutta la ‘linea’ Apache (mai chiamarla rassegna!) lo possiamo confermare, ce ne andiamo tuttavia un po’ con l’amaro in bocca. Perché ci sono lavori che si vorrebbe fossero visti da più pubblico.
E’ il caso dei napoletani di Teatri inGestAzione che, pur non giocando in casa, hanno portato a Milano un lavoro interessante e stimolante. Un peccato, quindi, non veder la stessa affluenza di spettatori di altre date segnate da grandi pienoni e un bel pubblico trasversale.
Sappiamo che ogni operazione culturale porta con sé un margine di rischio ed incertezza, come sappiamo che ci sono spettacoli che avranno sempre un seguito e spettacoli che ne avranno meno, sebbene questo c’entri poco o nulla con la qualità del lavoro proposto.
Questo ci porta a fare una riflessione sul pubblico, sui pubblici, e su come intercettarli. Una riflessione che abbiamo voluto condividere con alcune delle compagnie protagoniste di questa edizione di Apache.
Carrozzerie | n.o.t, che hanno co-prodotto “White Wide Wet” di Andrea Pizzalis, come gestori di uno spazio sostengono che “la responsabilità della mancanza di pubblico debba essere in primo luogo proprio degli spazi. L’artista dovrebbe solo fare il suo lavoro e non il promotore del proprio evento. Apache però è una rassegna di alto livello teatrale, affascinante, coraggiosa, con cui siamo felici di essere entrati in contatto e di restare in relazione; qualcosa che dovrebbe uscire fuori dalla riserva e diventare nazione”.
Carmen Giordano, di Macelleria Ettore, pensa invece che “Apache è giustamente una riserva perché osservatorio su progetti di nuova drammaturgia in fieri. Una possibilità stimolante: quella di proporre un lavoro non finito al pubblico, agli operatori, ai colleghi. Significa esporsi e fare delle scoperte fondamentali alla crescita del lavoro. Il pubblico nel nostro caso [“Sapevo esattamente cosa fosse l’amore prima d’innamorarmi”, uno studio sui Racconti di Cechov, ndr] ha risposto con entusiasmo e il nostro percorso creativo ne ha giovato. Da rifare”.
E questo è vero. Una ‘riserva’ porta con sé un inevitabile margine di incertezza e scommessa. Ma la possibilità di esibirsi e avere un parere quando il lavoro è in costruzione può essere un vantaggio enorme per una compagnia.
E’ di questo parere anche Marco Valerio Amico del Gruppo Nanou: “Apache è stato un sostegno enorme perché ha sposato la nostra idea e l’ha sostenuta, e perché insieme abbiamo colto l’opportunità di costruire e proporre un lavoro atipico all’interno di un ambiente teatrale”.
Tutti i lavori di Apache sono diversi, non allineati, interessanti perché sposano dinamiche altre, a cui il pubblico è poco abituato. E vedere lavori di questo tipo, che uniscono diversi linguaggi, messi in scena in un teatro come il Litta di Milano che ha un circuito ufficiale, è un’opportunità non solo per chi mostra, ma anche per chi fruisce.
“Apache ha permesso la trasversalità permettendoci di intercettare un’utenza per noi atipica, che ha portato grande entusiasmo perché non aveva aspettative di genere – ci racconta ancora Marco Valerio Amico – Si è immersa innocentemente ed era pubblico (fatto di architetti, fotografi, designer, persone…) e pochi personaggi del settore. Apache non ha forse la forza per poter muovere grandi numeri di gente, e neanche gli spazi per un’operazione di questo tipo. Ha però la forza di generare nuove curiosità”. Ed è questo il suo valore più grande.
Se è vero che ci sono luoghi frequentati quasi esclusivamente da addetti ai lavori (in cui si sente la mancanza vitale di un pubblico ‘qualunque’), è anche vero – e qua ci apriamo a riflessioni condivise – che sono numerosi i teatranti che vanno poco a teatro, a vedere il lavoro altrui, non cogliendo l’opportunità di misurarsi con la ricerca artistica dei colleghi, guardandone l’evoluzione, la storia, le dinamiche, e spesso trincerandosi nel fare pubblico solo agli amici.
Far cultura, presentare progetti “diversi”, rompere il muro portando avanti operazioni azzardate e non omologate, magari anche con qualche inevitabile errore, è un lavoro che non sarebbe fattibile senza gli sforzi dell’organizzatore, che deve moltiplicare le sue risorse per attrarre pubblico, riempire le sale, comunicare che un altro teatro è possibile. Perché non è affatto detto che, se si presenta qualcosa di interessante, qualcuno verrà a vederlo.
Questo ha cercato di fare Apache in questi due anni, presentando lavori nuovi, intelligenti, talvolta difficili. E benvenga anche quel qualcuno che avrà ritenuto qualche spettacolo del tutto incomprensibile. Ma per trasmettere arte è necessario azzardare, sperimentare.
La cura e un immenso lavoro di comunicazione dovrebbero fare il resto. A volte funziona, altre meno. Tornando ai pubblici, sarebbe bello in queste occasioni – anche per le compagnie meno note – vedere costituirsi un pubblico trasversale composto da persone comuni insieme ai tanti attori, organizzatori, curiosi di teatro che Milano possiede, e che troppo spesso – ci ripetiamo – vanno invece a vedere solo gli amici o i nomi più noti. Provare a mettersi in gioco attraverso un’apertura al confronto; e a forza di gomitate a tutti gli omologati pensieri, aprire un varco nella riserva.