Arrivano dal mare, e guardano ai futuri 40 anni del teatro di figura

Stefano Giunchi
Stefano Giunchi
Stefano Giunchi

Burattini, marionette, pupazzi e narratori di Arrivano dal Mare, festival di teatro di figura italiano, uno dei più antichi al mondo, hanno invaso dal 15 al 20 settembre le città di Gambettola, Cervia, Cesena, Gatteo, Longiano e Montiano per festeggiare un traguardo importante: i 40 anni della rassegna.

Oltre 50 spettacoli, provenienti da tutto il mondo, tra figura e narrazione, mostre, parate e dibattiti hanno caratterizzato questa edizione, che ha avuto inizio nella storica sede di Cervia, con la deposizione di una targa commemorativa in occasione dell’anniversario e che ha avuto il suo centro operativo a Gambettola, la nuova sede ospitale del festival.

La storica manifestazione quest’anno ha avuto poi anche un nuovo assetto organizzativo, con l’arrivo della compagnia Teatro del Drago/Famiglia d’Arte Monticelli, che ne ha rilevato il marchio affiancandosi allo storico direttore artistico Stefano Giunchi, che ora sarà affiancato da Roberta Colombo.
Sono stati per noi, che abbiamo vissuto tutti questi giorni e trenta edizioni del festival, un coacervo di emozioni, ricordi e suggestioni per una manifestazione che ha formato il nostro sguardo di spettatore, inserendo il teatro di figura come parte integrante e fondante del nostro immaginario teatrale.

In occasione di questo anniversario abbiamo voluto incontrare Stefano Giunchi, padre e principale motore del festival, per ripercorrere insieme a lui questi meravigliosi quarant’ anni riproponendo le ragioni e gli obiettivi di Arrivano dal Mare, ma anche i principali avvenimenti, le peculiarità e le importanti prospettive che la manifestazione si trova ora davanti a sé.

Come e perché nacque, in quel lontano 1975, il festival?
Nacque per caso. Da una bella mostra di burattini storici nel Teatro Comunale di Cervia, realizzata dall’associazionismo democratico, che allora era una potenza creativa, e nell’ambito di servizi culturali che venivano forniti a “pacchetto” ai gruppi di turisti organizzati, per lo più anziani e bambini. Poi la cosa ci prese la mano, studiammo, cominciammo a frequentare le famiglie tradizionali emiliane (dal cavalier Monticelli ai Ferrari, da Vignoli a Presini), andammo all’estero a curiosare.
E a Charleville-Mézières restammo folgorati. Il nuovo e la tradizione insieme: performer come Paul Zaloom o Jean Paul Hubert e burattinai come Alain Recoing. Quello era il nostro mondo di sogno realizzato. Dovevamo farlo anche in Italia.
Da lì nasce il nostro festival, dall’immaginazione, dal desiderio e da un modello realizzato. Poi, siccome l’idea di un festival aperto in più direzioni piacque a molti, la cosa ebbe immediato successo nella realtà italiana, ricca e variopinta come sempre. Cominciarono ad arrivare all’appuntamento cervese Mimmo Cuticchio, Otello Sarzi, il giovane Danielli, Teatro Gioco Vita, le Briciole e tanti altri artisti che lì hanno trovato la via per l’Europa.

Quali sono i ricordi indelebili del festival che ti rimangono nella mente?
Fiorenza Bendini discinta che veleggia di notte fra i corridoi della Colonia Dante, i Pannalal’s Puppet con il loro camion-teatro in mezzo a bambini, cani e marionette indiane… O Ted Milton con il suo “Pugh and Judy” ambientato nei cessi della metropolitana londinese; il sindaco Rosetti che un po’ inquieto sorrideva sotto i baffi; i magnifici e brancaleonici “sbarchi” sulla costa Romagnola, quelli più organizzati sul litorale laziale, da Ladispoli ad Anzio, durante l’Estate Romana di Nicolini e l’edizione “doppia”, dall’alba al tramonto, a Cervia e dal tramonto all’alba (i titolisti di Tarantino ci hanno copiato) realizzata con Antonio Attisani. E come non ricordare i Fiori Blù, con i nascenti gruppi di ricerca che poi occuparono la scena teatrale italiana, i tantissimi gruppi delle tradizioni più antiche, dal Mamulengo brasiliano all’iraniano Palhavan Kaciàl, ai burattini cinesi… Le varie “pulcinellate”, qui da noi e in giro per l’Europa, in cui scoprimmo le radici comuni del linguaggio burattinesco e rimettemmo fortemente in circolazione (con un progetto europeo che coordinammo) i Petruschka, i Laslo Vitez, i Dom Roberto, i Vasilache e tutti gli altri… E le lunghe litigate teoriche con te, caro Mario Bianchi, sul bordo del canale, col rischio di finirci dentro. La Paola e Luì Angelini ignudi nella vasca da bagno che facevano l’Odissea; i pubblici sempre numerosi ed entusiasti; i giovani (tantissimi) usciti dal nostro Atelier delle Figure o da altre esperienze formative, che qui hanno debuttato; personalità come Dario Fo, Tom Stoppard, Margareta Niculescu, Jacques Felix, Maria Signorelli, che hanno illuminato le nostre serate. E l’ultimo Festival a Cervia, fatto con la neve fra Natale e Capodanno, la calda ospitalità di Gambettola…  insomma, mi fermo, se no mi viene uno “schioppone”. Vedi, con l’età assomiglio sempre più a uno Sganapino “stonato” e a un Balanzone apoplettico; potrei restarci secco.

Quali sono secondo te le ricchezze maggiori e le peculiarità di questo teatro?
I linguaggi e le grammatiche, semplici e raffinate, dall’efficacia straordinaria. Il teatro di figura, nelle sue forme diverse, genera una empatia fortissima in chi vi assiste. Saranno i neuroni-specchio o uno speciale dono degli dei, ma funziona. Inoltre spesso si rivolge contemporaneamente (colpendo diversi punti “vulnerabili”) sia agli adulti che ai bambini, come era un tempo lo spettacolo all’improvviso nelle piazze. E’ polisemico, combinatorio, ha un suo repertorio che si tira dietro da secoli, è fatto di sogni e materia grezza. E poi, diciamolo, costa poco, sia da produrre che da far circuitare.

Com’è cambiata in questi quarant’anni la reputazione del teatro di figura in Italia?
Beh, da quando ospitavamo gli artisti nelle camerate delle Colonie Marine ad oggi, qualcosa è cambiato… Allora i burattinai facevano fatica a sentirsi della stessa famiglia dei marionettisti o degli sperimentatori. La famiglia si è allargata, ed è consapevole della sua identità e della sua forza.
Il teatro di figura (termine nato a Cervia e oggi accettato da tutti) è maturo al punto di non temere più contaminazioni con altri linguaggi, giocando a tutto campo sulla scena italiana dello spettacolo dal vivo. Ci sono leggi regionali a tutela dei suoi operatori e una legge nazionale che lo include e lo riconosce pienamente. Da qualche anno è ripresa una intelligente e varia attività di ricerca ed editoriale (dai lavori di Alfonso Cipolla e Giovanni Moretti, alla neo-collana di libri e-book realizzata dall’editore Guaraldi). L’università lavora sulle nostre problematiche con competenza. Teatri e festival hanno ormai una parte della loro attività dedicata al teatro di figura.

Cosa bisognerebbe fare per sdoganarlo dall’idea che sia solo un divertimento riservato ai bambini?
Direi piuttosto che oggi non vi è più il timore di confondere il teatro di figura con il teatro per ragazzi, anzi permettimi un apparente paradosso: il teatro di figura è così certo della sua identità che può tranquillamente rioccuparsi di bambini, di educazione, di gioco infantile. Come il resto dello spettacolo dal vivo. E assieme a ciò di modernità, apertura alla società, drammaturgia per adulti, ricerca, formazione di alto livello. Non dimentichiamo mai che siamo una nicchia, particolarmente preziosa, ma dai numeri fatalmente bassi. Dobbiamo far bene il nostro lavoro e promuoverlo tenacemente in tutte le sedi. L’affermazione ulteriore non mancherà.

Come vedi il futuro del festival con l’unione al Teatro del Drago?
Sergio Diotti ed io abbiamo consegnato al Teatro del Drago (arricchito da new entry che vengono dall’Atelier delle Figure e dall’esperienza del festival) una macchina ancora in grado di produrre cultura, incontri e spettacoli di livello internazionale.
Dopo quaranta edizioni vanno ripensate diverse cose, rendendo più protagonisti artisti e compagnie, incrementando i progetti “speciali” pensati per l’uscita al festival, dando un ruolo alle componenti del territorio gambettolese (già così recettivo e solerte), trovando maggiori risorse per sostenere il livello internazionale. Nuovi soggetti si sono affacciati e premono per avere più spazio in scena: dal Teatro delle Disabilità, alle forme che si esprimono online, al teatro musicale… Lo stesso Premio Sirene d’Oro (che viene dato ogni anno ai sostenitori del teatro di figura) ha bisogno di fermarsi e rinnovare la sua formula.
Credo che la cosa migliore adesso sia riflettere e promuovere un seminario a più voci, nelle prime settimane dell’anno nuovo, per mettere a confronto idee e progetti. Noi vecchi ci siamo sempre a dare una mano, ma ora i protagonisti sono loro, speriamo almeno per altri 40 anni…

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